Nel ricordo della croce e della risurrezione
Sguardi Che Contemplano
Azione Cattolica Adulti
Basilica di Santa Sabina – 09 aprile 2022
Quanti hanno fede vivono nella speranza della rivelazione dei figli di Dio, nel ricordo della croce e della risurrezione del Signore (AA 4)
Luce di santità
Buongiorno! Vi guardo e resto colpito: quanto siete belli! Davvero! Siete bellissimi! Non è la bellezza fisica a colpirmi, ma la vostra luce di santità! Sprizzate luce da ogni poro! Tutta questa stanza è luminosissima, grazie a voi!
Come mai? Cosa fate per risplendere di tutta questa santità? Se avete una ricetta magica, dovete darmela, perché io faccio una fatica sovrumana, pensavo che con l’età sarei diventato più buono e più santo, invece mi ritrovo a borbottare e a inciampare ad ogni passo.
Proprio per questa mia mediocrità poi, alla fine, mi domando: servirà davvero tutta questa luce di santità? E a chi?
La Chiesa santa del Concilio
La Chiesa – dice il Concilio – è agli occhi della fede indefettibilmente santa (LG 39). Fiumi di inchiostro sono stati versati su quell’avverbio: indefettibilmente. Attenzione! Indefettibilmente non significa infallibilmente. Infallibile è qualcosa che non sbaglia, qualcosa che accade di sicuro; indefettibile è qualcosa che non ha difetti.
I Padri conciliari ci hanno voluto dire, in altre parole, che la santità della Chiesa è completa, senza difetti, senza nulla che le manchi, perché è la stessa santità di Dio. Quando la Chiesa è santa. Non ci hanno detto che la Chiesa sarà sempre santa in tutte le circostanze della storia. Non abbiamo, cioè, la sicurezza che la Chiesa si comporterà sempre in modo degno di Cristo.
I Padri conciliari aggiungono un’espressione che sinteticamente descrive cosa significa “comportarsi in modo degno di Cristo”: È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano (LG 40),
Pienezza della vita cristiana e perfezione della carità sono tale santità, la quale promuove un tenore di vita più umano. Ciò che caratterizza la santità della Chiesa è meno la sua utilità per i credenti di quella utilità che invece coinvolge il genere umano nella stessa società terrena. Quest’ultima diventa il banco di prova della santità: la Chiesa indefettibilmente santa si riconosce non dalle messe faraoniche, non dal numero di chiese belle e storiche, non da quanti battesimi, prime comunioni, cresime e sacramenti vari celebra, ma si riconosce dal fatto che promuove un tenore di vita più umano nella società umana. L’opera compiuta dal nostro Signore Gesù si ritrova in tale espressione: promuovere un tenore di vita più umano nella società umana.
Non ci stupisce che sia chiamato Redentore colui che all’uomo decaduto ha offerto una seconda opportunità di vita, addirittura più umana della prima condizione.
Parliamo di morte e di risurrezione
Mi avete chiesto di parlarvi della morte e risurrezione di Cristo. E per farlo ho scelto come tema guida le parole del documento conciliare Apostolicam Actuositatem, che nell’Azione Cattolica dovrebbe conoscersi a memoria, perché parla soprattutto di lei, di voi. Mi avete chiesto di farlo nel rispetto dello stile contemplativo del vostro itinerario annuale: sguardi che contemplano. Vi ringrazio. Anzitutto della fiducia accordatami. Non sono un teologo, né un grande pastore, né uno dei contemporanei raffinati predicatori di lectio divina, sono un prete come se ne trovano tanti e svolgo il mio ministero al servizio delle persone, malate e sane, in una struttura residenziale psichiatrica. Non so davvero cosa vi abbia spinto a scegliere me, oltre la personale stima – ricambiata! – del vostro vicepresidente, Giancarlo, che me lo ha proposto.
Vi ringrazio però soprattutto per il coraggio dell’argomento. Parlare di morte, di croce e di risurrezione richiede una buona dose di coraggio, di fede coraggiosa. Quando a Gesù chiesero di dimostrare di essere Figlio di Dio facendo le opere di Dio, rispose: Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6,29). In pratica, la fede in Cristo, nella sua morte, nella sua risurrezione, è l’opera di Dio, nel duplice senso: opera di Dio sull’essere umano (fede come dono) e opera di Dio compiuta dagli esseri umani (fede come virtù). In definitiva parlare di morte, di croce, di risurrezione è opera di Dio.
Che l’argomento della morte e della risurrezione avrebbe occupato il posto centrale della sua missione, Gesù non sembra averlo capito subito, anche se nel vangelo spiega cosa gli è stato comandato di fare: Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio (Gv 10,17-18). Tale offerta della vita di Gesù è finalizzata, ha uno scopo ben preciso, e cioè che le sue pecore abbiano la vita eterna: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano (Gv 10,27-28).
Gesù dunque si sente e sa di essere amato dal Padre, di avere una missione da compiere, di voler offrire la propria vita per donare la vita eterna a quanti credono in lui.
Ma in realtà come sono andate le cose?
Dal Dio-amore della missione…
Gesù si dice certo che Dio, suo Padre, lo ami. Gli evangelisti ricordano almeno due episodi nei quali Dio Padre rivela il suo smodato amore per il Figlio. Uno è il battesimo al Giordano, quando la voce di Dio squarciò il cielo e si udirono le sue parole: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto (Lc 3,22). L’altro è la trasfigurazione, al termine della quale di nuovo la voce di Dio si fa udire: Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo (Lc 9,35).
Non so cosa possa significare esattamente udire la voce di Dio per un essere umano. Deve essere un’esperienza insieme affascinante e terribile, che riempie di estasi e di paura. Il popolo di Israele si rifiutò di sentirla dopo l’esperienza del Sinai, dove Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono (Es 19,19). Il popolo fu così sconvolto solo allo spettacolo di lampi, tuoni e monte fumante da dire a Mosè: Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo! (Es 20,19). Per ascoltare la voce di Dio serve coraggio, molto coraggio.
Per Gesù ascoltare la voce di Dio, superando la paura dell’esperienza stessa, costituisce conferme: la conferma di essere voluto bene (prediletto), la conferma di ricevere fiducia (in te mi sono compiaciuto), la conferma della sua missione (eletto), la conferma di quello che fa (ascoltatelo). La voce di Dio è la conferma, la cresima, l’unzione di Gesù. Con questa unzione Gesù è in grado di affrontare qualsiasi oppositore, qualsiasi contrarietà, è in grado di svolgere la sua missione.
Così sicuro della sua unzione Gesù che davanti a chi lo contesta riafferma con decisione la sua fede: “Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,30). Gesù, l’amato, il prediletto, si fa forte dell’unzione di Dio: no, lui non è solo nella sua missione.
Anche quando in Gesù matura la consapevolezza che i suoi contemporanei non lo comprendono e stanno tramando per eliminarlo, non viene meno la voce rassicurante del Padre. Un Gesù preoccupato per l’esito della sua missione si mostra ancora fiducioso nell’intervento divino del Padre: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!” (Gv 12,27-28).
.. al Dio-silenzio della croce
C’è un momento, tuttavia, nella lettura dei vangeli, in cui si coglie che il turbamento di Gesù è ai limiti della disperazione. È il Getsemani. Gesù sembra impazzito. Si comporta da pazzo. Con i discepoli va di notte a pregare all’aperto. Ne fa sedere otto da una parte, prende i tre preferiti e insieme a loro si allontana un po’. Inizia a provare tristezza e angoscia (Mt 26,37). Chiede loro di non lasciarlo solo, dice: La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me (Mt 26,38). Ma non gli basta. Si alza, non è tranquillo, si sposta, va a pregare per conto suo, forse non vuol farsi vedere in quelle condizioni. Si butta con la faccia a terra e supplica il Padre: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Mt 26,39). Passa un’ora così. Ma nessuna voce di Dio si sente nell’aria.
Forse Gesù si è tranquillizzato, si rialza, va dai suoi, li trova che dormono. Amici e discepoli che non hanno capito e non partecipano del suo dramma, della sua disperazione. Li rimprovera. Si allontana di nuovo, riprende a pregare: Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà (Mt 26,42). Gesù è abituato a chiamare Dio Padre, ma sulle sue labbra l’aggiunta del possessivo mio diventa un modo affettuoso di esprimersi. Padre mio. Non è l’appello di un orante qualsiasi, è il dialogo tra il figlio e un Padre che continua a restare in silenzio.
Si alza di nuovo, torna dai suoi e li trova profondamente addormentati. Giovanni, l’evangelista, cambia il verbo con cui descrive la successiva azione di Gesù. La prima volta dice che Gesù “avanza un poco”; la seconda volta che Gesù “si allontana” dai discepoli; questa volta, la terza, che Gesù “lascia” i discepoli per allontanarsi. Ciascuno è lasciato al suo destino. Il Padre non risponde. I discepoli sono addormentati. Gesù è definitivamente solo e ormai ripete come un matto le stesse parole. Secondo l’evangelista Luca non basta nemmeno la presenza di un angelo a confortarlo. È angosciato, suda copiosamente, gocce che cadono sul terreno, un sudore diventato sanguinolento: In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
Il silenzio di Dio è pesante. È il silenzio più pesante che si possa immaginare. La voce di Dio mette paura, sconvolge. Ma il silenzio di Dio è disperante.
Gesù lo prova in tutta la sua ampiezza di figlio abbandonato dal genitore, solo e in balia di torturatori e di assassini. Sulla croce Gesù che grida a Dio è il monologo straziante di chi si aggrappa alla fede ormai cieca e senza risposte: Padre, perdonali (Lc 23,34), e non risponde; Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46; Mc 15,34), e non risponde; Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito (Lc 23,34), e non risponde.
Qui la voce di tuono del Padre che conferma il Figlio si fa assente. Sarebbe stato il momento più opportuno per farsi sentire, invece Dio è come se guardasse da un’altra parte. La croce è il punto più alto del coraggio della fede, in cui Gesù non rinnega il Padre pur di fronte al suo incomprensibile silenzio. E solo, sulla croce, muore.
Dopo tre giorni
Da bambino mi chiedevo spesso cosa avesse fatto Gesù tra il venerdì della crocifissione e la domenica di risurrezione. Tecnicamente non sono tre giorni, sono circa 40 ore.
Discese agli inferi. Con questa espressione dal carattere un po’ ambiguo e fumoso tendiamo a liquidare quel periodo di tempo. Vorrei però ricordare che al tempo di Gesù non vi era una consapevolezza dell’aldilà simile a quella che possediamo noi oggi. La risurrezione rappresenta uno spartiacque. C’è un prima della risurrezione e c’è un dopo della risurrezione.
Il prima ci dice che con la morte finisce tutto. Tale era il pensiero antico. Del resto dall’aldilà nessuno era mai tornato all’aldiqua a dirci come stavano realmente le cose. Per gli antichi lo sheol, l’ade, gli inferi erano il regno dei morti, un non-luogo disumano dove ciò che sopravviveva era al massimo il ricordo delle persone, la loro fama. Ma se non eri qualcuno era finito pure quello, era finito tutto. Niente corpo, niente anima, niente relazioni umane, nessuna giustizia, nessun aggressore, nessuna vittima, le opere buone e le opere cattive sprofondate in un unico indistinto abaddon, abisso. Solo distruzione e rovina. Per sempre.
Gesù morto finisce lì, nel non-luogo dei morti, nell’abisso, distrutto e rovinato per sempre.
La risurrezione fa da spartiacque tra questo per-sempre disumano e disumanizzato, da una parte; e l’umanità e l’umanizzazione del per-sempre redento, dall’altra. Per questo è importante che il tempo della risurrezione abbia un termine: tre giorni. Gesù scende agli inferi ma non per-sempre, scende per tre giorni. Conosce la condizione di totale annichilimento dello sheol, dell’ade, degli inferi da dove nessuno è mai tornato. La conosce sul serio, non per un minuto, per un’ora o per un giorno.
Il dopo della risurrezione inaugura un nuovo modello di per-sempre. Chi incontra Gesù dopo la risurrezione lo trova irriconoscibile, come Maria di Magdala al sepolcro (Gv 20,14) o come come i discepoli di Emmaus (Lc 24,16) o come gli apostoli che lo incontrano sulle sponde del mare di Tiberiade e non osano domandargli: “Chi sei?”, poiché sapevano bene che era il Signore (Gv 21,12). Dopo la risurrezione sembra non conti più l’apparenza ma il sentirsi toccati nel profondo della propria umanità: così Maria di Magdala chiamata per nome trasalisce; così i discepoli di Emmaus si sentono ardere il cuore; così gli apostoli, Giovanni l’amato lo percepisce con l’antenna dell’amore, Simone la pietra si precipita da lui con la forza della fede.
Persino il disumano non-luogo dei morti non esiste più. Gesù deve salire al Padre suo, il nuovo luogo dove dimorano i figli nella vita eterna (Gv 20,17), alla destra di Dio in segno di onore (Mc 16,19), al cielo in opposizione ai perduti inferi (Lc 24,51). Perché lui è di lassù (Gv 8,23).
E l’affettuoso modo di rivolgersi a Dio come Padre mio si estende a tutti i suoi fratelli, diventando Padre vostro. Come se d’improvviso Gesù avesse dato origine ad una famiglia allargata in cui ogni persona umana trova il suo posto accanto a Dio, generatore di paternità, di figliolanza e di fraternità.
Per noi e per la nostra salvezza
Gesù risorto si mostra bello da far trasalire e buono da far commuovere. La risurrezione, cioè la nuova vita più umana opera di Dio, è benefica e pulcrifica. Lo comprendono bene i primi testimoni cristiani. Come nota padre Raniero Cantalamessa, in pochi anni da quell’iniziale è morto, è risorto, gli autori sacri passano ad un diverso modo di esprimersi: Paolo scrive ai Galati di un rapporto personale con Gesù il quale “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Quell’estensione del rapporto filiale con Dio (Padre vostro) permette all’apostolo di riconoscere nell’opera di Gesù che si dà senza misura (tutto se stesso) un segno di invincibile amore.
Oggi nella nostra professione di fede ripetiamo che Gesù si è fatto uomo per noi uomini e per la nostra salvezza, e che questo farsi uomo si estende al sacramento della sua morte e della sua risurrezione. Per noi uomini e per la nostra salvezza si incarnò, si fece uomo, morì, fu sepolto, discese agli inferi, risuscitò, ascese alla destra del Padre suo e Padre nostro.
Con queste parole riconosciamo che l’umanità nuova del per-sempre redento è e sarà un costante incarnarsi, morire, scendere agli inferi, risorgere e salire alla destra del Padre per gli uomini e per la loro salvezza. La Chiesa, il Popolo di Dio, che prosegue nel tempo l’opera redentrice di Cristo non fa altro che ripetere questi suoi sacramenti salvifici. La Chiesa esiste per questo. O si incarna, muore, scende agli inferi, risorge e sale alla destra del Padre o semplicemente non è.
Il destino della Chiesa
Ricordate quale è stata la culla del cristianesimo dei primi secoli? Non la Palestina, distrutta dai romani; nemmeno Roma, ancora troppo pagana e persecutrice per produrre raffinata teologia. La culla del cristianesimo furono quelle aree geografiche che oggi conosciamo con il nome di Siria, di Turchia, di Egitto, di Libia, di Algeria, di Etiopia…
Quante comunità cristiane si trovano oggi in quelle aree? Dopo 2000 anni i cristiani in quelle aree sono praticamente scomparsi. Le ragioni storiche (guerre, conquiste religiose, carestie, sottosviluppo…) sono piuttosto facili da trovare. Ma le ragioni teologiche? Perché brillanti comunità cristiane sono scomparse? Perché Dio lo ha permesso?
Si legge nell’Apocalisse: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese: a Efeso, a Smirne, a Pèrgamo, a Tiàtira, a Sardi, a Filadèlfia e a Laodicèa (Ap 1,11). Tra loro sette solo Smirne, che non doveva temere ciò che stava per soffrire, raggiunge a malapena i 15.000 cristiani su una popolazione di quasi 4 milioni di abitanti (ma l’intera Diocesi è molto più vasta della sola città). Delle altre chiese, Efeso, che aveva abbandonato il suo amore di prima, non esiste più; Pergamo – troppo tollerante verso pagani e eretici – è scomparsa; Tiatira, dissoluta e gettata in un letto di dolore, spenta; Sardi che non aveva opere perfette davanti a Dio: distrutta; Filadelfia, con poca forza, non ha più cristiani; Laodicea, né fredda né calda, che si credeva ricca mentre non sapeva di essere infelice, miserabile, povera, cieca e nuda, annientata da un terremoto e mai più ricostruita.
Mi sono fatto la convinzione che Dio abbia permesso la sparizione della Chiesa ovunque la Chiesa non sia stata in grado di incarnarsi, morire, scendere agli inferi, risorgere e salire alla destra del Padre. Non rendendo un po’ più umano il contesto sociale nella quale si è trovata storicamente ad agire. In poche parole, non essendo santa.
Ma la chiesa di Roma o quella di Parigi sono più al sicuro di quella di Efeso o di quella di Smirne? C’è la certezza che queste Chiese di lunga tradizione possano sopravvivere ancora a lungo e senza preoccupazioni? Hanno una buona scorta di santità per farlo?
La rivelazione dei figli di Dio
Il tema che cerco di sviluppare parlava di “rivelazione dei figli di Dio”. Del resto, se ai cristiani è concesso dire Padre nostro in qualche modo pure loro hanno un dovere di rivelazione. Il benchmark, il termine di paragone della rivelazione dei figli di Dio non può che essere la medesima rivelazione di Dio. Cioè il per noi uomini e per la nostra salvezza di Gesù.
Devo quasi trattenermi dal dire quel che penso, cioè che forse a noi credenti cristiani di oggi manca qualcosa. Abbiamo tutto (chiese, teologia, università, ospedali cattolici…), tutti gli strumenti, anche molto raffinati, ma manca qualcosa. È come se vivessimo una pseudo-santità rivolta a noi e alla nostra salvezza, mentre ciò che dovremmo realizzare è un compito che ci proietta verso l’umanizzazione e la salvezza dell’umanità che ci circonda. Una santità egoistica, ammesso che si possano accostare questi due termini, che ruota attorno al nostro bisogno di rassicurazione, di redenzione, di spiritualità, ma troppo poco attenta all’obiettivo per cui ci viene donata.
È come se certe comunità cristiane siano più preoccupate di se stesse e della propria identità e purezza che della missione che hanno ricevuto. In questo il ministero di Papa Francesco si rivela prezioso, quando identifica la Chiesa del III millennio cristiano come Chiesa in uscita. Chiesa che rivela, dunque si apre, abbandona lo stile della torre d’avorio e abbraccia lo stile della Chiesa del grembiule, tanto caro a Tonino Bello.
Ricordare la croce e la risurrezione
L’AA indica nel ricordo della croce e della risurrezione uno stile di rivelazione. Non è chiaramente un semplice riportare alla memoria, né un fermarsi a meditare. Poiché il ricordo è questione di cuore (ricordare = riportare al cor-cordis cuore), il tempio della nostra persona, il ricordo è attività contemplativa (cum templo, quando gli àuguri osservavano il volo degli uccelli nello spazio limitato del tempio per ricavarne presagi).
Ricordando contemplativamente la croce e la risurrezione del Signore impariamo a rivelarci come figli di Dio.
Impariamo ad essere unti dell’amore di Dio perché ci ha scelti per una missione, che è rendere più umana la storia e la società del genere umano.
Impariamo ad ascoltare la voce di Dio perché facciamo sempre quel che lui vuole, e finalmente riconosciamo questa voce nel migrante e nel carcerato, nel malato di mente e nella politica, nel servizio alla famiglia e nell’onestà del lavoro.
Impariamo a restare soli senza paura, a continuare a fare il bene (cioè amare… perché amare non vuol dire sentimenti vaghi, ma nel linguaggio di Gesù significa [1] fare il bene, [2] farlo bene, [3] farlo sempre, [4] farlo sempre meglio) anche quando ci sembra che non serva a niente o che nessuno ci presti attenzione o che addirittura veniamo ostacolati.
Impariamo ad entrare nel deserto del silenzio di Dio, laddove continuare il cammino pur privi delle consolazioni che vengono dal calore della vicinanza di Dio, dalla comprensione dei fratelli e delle sorelle, dalla condivisione degli obiettivi.
Impariamo a vivere una vita nuova, redenta non distaccata, luminosa e per questo ancora più immersa nelle piaghe dell’umanità, pronti a collaborare con tutti, a rinunciare persino alle nostre rivendicazioni per entrare nella quotidianità di chi non crede, non spera, non ama.
Impariamo a salire alla destra del Padre, perché la nostra santità, dono e parte della sua, bonifichi e pulcrifichi l’umanità in modo che – come ha fatto Gesù – possiamo anche noi presentarci a Dio avendo donato noi stessi per gli uomini e per la loro salvezza.