Opere di misericordia corporali

Testo della Conferenza tenuta presso la Parrocchia dei Santi Protomartiri Romani in Roma il 13 marzo 2016

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E’ veramente giusto renderti grazie,
Padre misericordioso:
tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo,
nostro fratello e redentore.

In lui ci hai manifestato il tuo amore
per i piccoli e i poveri,
per gli ammalati e gli esclusi.
Mai egli si chiuse
alle necessità e alle sofferenze dei fratelli.
Con la vita e la parola
annunziò al mondo che tu sei Padre
e hai cura di tutti i tuoi figli. Amen

Il Nome di Dio è Il Misericordioso

Apro la presente riflessione con le parole del prefazio della preghiera eucaristica V/c, intitolata: “Gesù modello di amore”. La preghiera prosegue chiedendo a Dio di donarci “occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli”, di infondere in noi la luce della sua parola “per confortare gli affaticati e gli oppressi” e di fare in modo che ciascuno si impegni “lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti” affinché la chiesa di Dio sia “testimone viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace” e “tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo”. Vi invito a rileggere e meditare questa preghiera della chiesa, soprattutto quando vi domandate come sia meglio pregare. È una preghiera nutriente.

Per inciso: la preghiera di colletta della Messa di oggi, V domenica di quaresima anno C, invoca Dio, chiamandolo ancora una volta “misericordioso”: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Lex orandi, lex credendi.

Nella conferenza precedente abbiamo introdotto il tema della misericordia osservando come tutte le più grandi espressioni religiose riconoscano in Dio la caratteristica dominante della misericordia. In realtà pur senza menzionarlo espressamente ci siamo posti alla scuola di Papa Francesco che sia nella bolla Misericordiae Vultus sia nella prima delle catechesi dedicate alla misericordia (13 gennaio 2016) ha voluto evidenziare tale caratteristica. Così dice il Papa nella bolla:

« È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza ». Le parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio. È per questo che la liturgia, in una delle collette più antiche, fa pregare dicendo: « O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono ». Dio sarà per sempre nella storia dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso (n. 6).

Il ciclo delle catechesi di Francesco dedicate al tema del Giubelo si apre con una riflessione intitolata esattamente “Il Nome di Dio è il Misericordioso”:

Nella Sacra Scrittura, il Signore è presentato come “Dio misericordioso”. È questo il suo nome, attraverso cui Egli ci rivela, per così dire, il suo volto e il suo cuore. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6).

Per proseguire le nostre riflessioni mi avete dato il tema delle opere di misericordia corporali. Sono sette, come ben sapete, cerchiamo di ricordarle, anche se è facile che al termine ne manchi sempre una della lista!

  1. Dar da mangiare agli affamati.
  2. Dar da bere agli assetati.
  3. Vestire gli ignudi.
  4. Alloggiare i pellegrini.
  5. Visitare gli infermi.
  6. Visitare i carcerati.
  7. Seppellire i morti.

Prima di entrare nel dettaglio delle sette opere appena elencate desideravo richiamare la vostra attenzione su di un particolare che non deve sfuggirci.

Il corpo mi hai dato

Si tratta di sette “opere” (quindi non buone intenzioni, non pii desideri, non “vorrei ma non posso”: giusto per essere precisi) corporali, cioè che hanno a che fare con la fisicità, la materialità, la carne della persona umana: in una sola parola, con il corpo.

Dobbiamo prendere atto che in molte culture e anche nel pensiero cristiano in certe epoche la corporeità è stata connotata da un giudizio negativo, quando non da un vero e proprio disprezzo. La materia è stata considerata prigione dell’anima, il piacere fisico (non solo sessuale, ma anche gastronomico!) un veicolo di Satana, i bisogni fisici a volte debolezze delle quali vergognarsi, altre volte tentazioni da dover vincere con la forza di volontà. In certe religioni la liberazione dalla materialità viene considerata la realizzazione del paradiso.

Tutto questo modo di considerare il “corpo” (in tutti i suoi molteplici significati) cozza platealmente con la scelta redentiva di Dio, il quale “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo” (credo niceno-costantinopolitano). Apparve tanto impressionante tale scelta agli occhi dei contemporanei di Gesù che l’autore della lettera/omelia agli Ebrei rileggendo il salmo 40,7 (“Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto”) lo traduce così: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato” (Eb 10,5).

Allo stesso tempo nei primi decenni dopo la risurrezione si deve essere fatta presente una contestazione di questa verità di fede tale da spingere Giovanni a scrivere un’affermazione lapidaria: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2) a differenza di chi non lo riconosce. La corporeità di Cristo non è stato un banale travestimento, quasi che Gesù avesse fatto finta di assumere i bisogni, i piaceri, i limiti della “carne” per non apparire troppo distante dall’uomo; né si può considerare una specie di prigione di Dio, come se il Figlio di Dio si fosse umiliato nell’apparire tanto umano da essere vero uomo in tutto. La corporeità di Cristo è stato il reale strumento unito alla sua divinità perché Dio potesse essere per noi uomini e per la nostra salvezza.

In altri termini attraverso il suo corpo Gesù non solo è entrato in relazione con ogni essere umano ma ha potuto utilizzare il suo corpo per inoculare la salvezza nelle relazioni stesse dell’uomo e nel creato. Il corpo è mediatore di salvezza. Le opere del corpo sono mediazione delle opere di salvezza. Il corpo che il Signore ha dato a ciascuno di noi entrando nel mondo ci permette di dire: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7).

A questo legame tra salvezza, volontà di Dio e corporeità non sfugge nulla di quanto più tipicamente umano e ci permette di dire che il corpo non è prigione dell’anima, ma la sua espressione nel creato materiale; che il piacere non è una tentazione del demonio, ma il modo di godere delle opere di Dio; che i bisogni fisici non sono debolezze, ma condizione creaturale da accogliere con umiltà (humus = terra).

Il corpo quale creatura di Dio piena di dignità e di salvezza merita perciò attenzione e rispetto. Nel preparare questa riflessione mi sono posto molte domande intorno al valore delle opere di misericordia corporali al nostro tempo. Ma solo alla luce di questa dignità del corpo mi è possibile non banalizzare le risposte.

La misericordia non coincide con la giustizia sociale, ma…

La banalizzazione più importante da evitare è la confusione tra la misericordia e la giustizia sociale. Risolvere i problemi della povertà (fame, sete, bisogno di casa, bisogno di pace eccetera) appartiene al mondo della giustizia. Deve finire il tempo che diamo per elemosina quello che si dovrebbe dare per giustizia. Ha giustamente evidenziato Papa Francesco nell’enciclica Laudato Sì che sulla terra, nostra casa comune, c’è spazio per tutti e che tutte le creature possono e devono trovarvi il necessario per vivere. Se non diventiamo consapevoli che la fame sofferta da tanti nostri fratelli e sorelle, come pure il mancato soddisfacimento di bisogni essenziali per la vita, è un vulnus per la giustizia non saremo mai in grado di affrontare seriamente la misericordia.

Fame, sete, migrazioni, malattia, detenzione chiamano in causa la capacità dell’uomo di organizzarsi per compiere scelte economiche e politiche rispettose della persona umana e dei suoi bisogni fondamentali, vitali. Ma nelle nostre società occidentali si avverte uno scontro che nulla ha a che vedere con le ragioni dell’amor patrio e del rispetto dei diritti. Questo scontro si combatte sul terreno dell’egoismo e dell’idolatria. L’idolatria del denaro, insieme a quella del successo, sono capaci di corrompere il cuore dell’uomo, di indurirlo a tal punto che non solo l’uomo diviene incapace di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto ma finisce pure per mormorare contro fratelli e sorelle sofferenti a causa di condizioni di vita subumane alle quali cercano una soluzione, chiedendo un po’ di spazio pure per loro e i loro figli nell’angolo di benessere ritagliato nelle nostre società opulente.

Papa Francesco, ripercorrendo la storia del Giubileo nella tradizione ebraica, ha voluto evidenziare come non esista un reale Giubileo se non si mette mano al portafogli: perché il Giubileo, nella bibbia, riveste un carattere sociale ed economico, quindi anche politico, dove tutto, alla fine, converge verso Dio, Signore della terra e della storia, alla ricerca del bene del proprio fratello. Così si esprime il Papa nella catechesi del 10 febbraio 2016:

Con il giubileo, chi era diventato povero ritornava ad avere il necessario per vivere, e chi era diventato ricco restituiva al povero ciò che gli aveva preso. Il fine era una società basata sull’uguaglianza e la solidarietà, dove la libertà, la terra e il denaro ridiventassero un bene per tutti e non solo per alcuni, come accade adesso, se non sbaglio… Più o meno, le cifre non sono sicure, ma l’ottanta per cento delle ricchezze dell’umanità sono nelle mani di meno del venti per cento della popolazione. È un giubileo – e questo lo dico ricordando la nostra storia di salvezza – per convertirsi, perché il nostro cuore diventi più grande, più generoso, più figlio di Dio, con più amore. Vi dico una cosa: se questo desiderio, se il giubileo non arriva alle tasche, non è un vero giubileo. Avete capito? E questo è nella Bibbia! Non lo inventa questo Papa: è nella Bibbia. Il fine – come ho detto – era una società basata sull’uguaglianza e la solidarietà, dove la libertà, la terra e il denaro diventassero un bene per tutti e non per alcuni. Infatti il giubileo aveva la funzione di aiutare il popolo a vivere una fraternità concreta, fatta di aiuto reciproco.

Il Papa conclude il proprio pensiero dicendo che “il giubileo biblico era un «giubileo di misericordia», perché vissuto nella ricerca sincera del bene del fratello bisognoso”. Non ignora, il Santo Padre, che nell’Antico Testamento quando gli ebrei parlavano del fratello si riferivano ad un altro ebreo, escludendo con ciò tutti gli altri, i non ebrei. Tale visione ovviamente non appartiene al popolo cristiano, per il quale tutti gli uomini appartengono all’unica famiglia di Dio e sono fratelli tra di loro.

Appare perciò straordinariamente contraddittorio che i credenti in Cristo non si sentano impegnati in prima persona a mettere in atto con tutte le proprie forze e lealmente le strategie opportune – anche per mezzo di pressioni e organizzazioni sociali e politiche e collaborando con tutti gli uomini e le donne di buona volontà – per stabilire un mondo giusto e fraterno.

Così mi trovo a concludere questo gruppo di riflessioni con una domanda: come considerare “opera di misericordia corporale” un gesto di elemosina o un atteggiamento caritatevole da parte di un credente se non è accompagnato, nella misura del possibile, da un corrispondente e precedente atto ed impegno di responsabilità sociale e politica per alleviare le ingiustizie sofferte da tanti fratelli e tante sorelle privati del necessario per vivere? Per quanto quell’opera possa essere sincera, non sarà tuttavia né completa né soddisfacente ai fini della misericordia.

La misericordia salva

Viviamo in un mondo imperfetto, per cui alla fine non possiamo nemmeno sostenere di aspettare tempi migliori per praticare le opere di misericordia, rimandando al momento in cui la giustizia sociale avrà trionfato. Del resto potremmo considerare la misericordia come la versione religiosa della giustizia sociale, laica. Questa si deve muovere affinché sia riconosciuto e stabilito il diritto di ogni persona umana ad una vita dignitosa; quella cerca ciò che era perduto – l’umanità – per riportarlo al Padre, per redimere, per salvare con tutta la corporeità possibile.

Le opere di misericordia corporali hanno a che fare con la salvezza. Ad imitazione di Gesù, che per noi uomini e per la nostra salvezza si fece uomo, il credente attraverso la sua umanità – corporeità – riafferma la sua prossimità a tutti gli uomini e lavora per la loro salvezza. Anche un po’ per la sua, dal momento che operare il bene è sempre meritorio e Dio, che ha memoria corta sul peccato, non dimentica nessuna delle nostre opere buone. In questa ultima parte vorrei soffermarmi su ciascuna delle sette opere di misericordia corporali per cercare insieme con voi di recepirne le esigenze di salvezza.

  • Dar da mangiare agli affamati

A Roma nessuno muore di fame. Tra mense dei poveri e “panini” delle suore, si può sopravvivere almeno sotto il profilo del nutrimento. Pure l’acqua non manca: i “nasoni” svolgono da secoli un servizio pubblico che rende l’idea di abbondanza e opulenza.
Conosco poco la situazione nel resto d’Italia. Meno ancora in Europa. Allargando lo sguardo al mondo, alle notizie spesso tristi che ci vengono da altre nazioni, ci rendiamo conto che il numero di coloro che soffrono la fame pur essendo notevolmente diminuito resta però vergognosamente alto.
In questo contesto cosa può voler dire “dar da mangiare agli affamati”?
Penso che sia doveroso un esame di coscienza per comprendere che quest’opera di misericordia corporale richiede non solo l’atto positivo del dono per nutrire coloro che a causa della povertà e del disagio non hanno cibo, ma anche per evitare che il cibo sia prodotto male, sia distribuito peggio e venga sprecato.
Prodotto male chiama in causa il nostro rapporto – materiale, corporale – con la madre terra, con le piante e gli animali spesso violentati da una produzione intensiva che rischia di ritorcersi contro l’uomo stesso.
Distribuito peggio si riferisce alla disuguale distribuzione del cibo, per cui in alcune zone del mondo obesità e malattie di origine alimentare (diabete, dislipidemie) affliggono la popolazione fin dall’infanzia mentre in altre zone del mondo milioni di persone non hanno il necessario per vivere.
Sprecato è quell’atteggiamento tipico dell’abbondanza egoista: fa parte di un comportamento quotidiano poco attento al valore intrinseco del cibo quale strumento di cura del corpo che viene trasformato in strumento di mero piacere egoistico. Quanti sposi fanno ancora oggi banchetti senza invitare poveri o senza pensare a far giungere una portata del loro pranzo alle mense, finendo inevitabilmente nella spazzatura! Benedetti coloro che, come i volontari di Equo Evento Onlus, si preoccupano di raccogliere il cibo avanzato perché non sia gettato ma serva ancora da nutrimento per qualcuno. Come faceva Gesù quando distribuiva pani e pesci per tutti (cfr sette sporte di pezzi avanzati, Mc 8, 8; fatto che Gesù rimprovera ai discepoli di non aver capito, Mc8, 9-21).

  • Dar da bere agli assetati

L’acqua è necessaria alla vita forse più del cibo. Una persona può resistere qualche giorno alla fame, ma non alla sete, alla mancanza di liquidi. L’acqua potabile, a differenza del cibo, non può essere prodotta ovunque; sia l’agricoltura che l’allevamento hanno bisogno di grandi quantità di acqua, ma non c’è modo di ritrasformare in acqua i prodotti della terra.
Queste verità elementari hanno spinto la cupidigia umana ad appropriarsi delle fonti dell’acqua; “possedere” l’acqua potabile è una fonte enorme di potere e di guadagno, tanto da essere chiamata ormai l’oro blu. In alcune aree del mondo i governi hanno privatizzato l’acqua, persino sotto la spinta di organizzazioni internazionali, come accaduto in Bolivia, dove nel 2000 si scatenò una vera e propria guerra per rivendicarne la proprietà pubblica.
L’Unione Europea ha approvato un meccanismo di concessioni che permette ai governi non di “privatizzare” ma di “monetizzare” l’acqua; le conseguenze potrebbero riversarsi sulle fasce più deboli della popolazione costrette a pagare per un bene assolutamente necessario.
Esistono multinazionali che attraverso le concessioni si assicurano il controllo pressoché monopolistico e lo sfruttamento delle sorgenti; pensiamo alla Nestlè che “possiede” marchi come Sanpellegrino, Levissima, Recoaro, Vera, Panna, solo per citarne alcuni.
Dar da bere agli assetati è anzitutto impegno a riconoscere che l’acqua è un bene pubblico, che, come l’aria, non può essere usato ed inquinato a piacimento, che come l’aria essendo indispensabile alla vita umana, animale, vegetale non può diventare oggetto di commercio. Impegno che quindi diventa opera di misericordia quando non solo evitiamo di sprecare questa risorsa, ma orientiamo le scelte politiche verso una più giusta distribuzione dell’acqua e sosteniamo in tutti i modi le ricerche scientifiche e tecnologiche per assicurare l’acqua in quelle zone del mondo dove è difficile procacciarsela.
Il prossimo 22 marzo è la Giornata Mondiale dell’Acqua, istituita nel 1992. Date sono importanti anche per noi credenti: niente testa nella sabbia! La nostra sensibilizzazione e partecipazione non è un optional.

  • Vestire gli ignudi

Tra i primi gesti che Dio fece verso Adamo ed Eva decaduti a causa del peccato originale fu quello di trasformarsi in sarto: prima di allontanarli dall’Eden, “il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gn 3,21) evidentemente preoccupato del clima inclemente che avrebbero trovato fuori del paradiso!
Quel gesto pietoso, misericordioso, voleva proteggere certamente i due dalle intemperie, ma anche assicurare il rispetto decoroso della corporeità di ciascuno. Nessuno sguardo indiscreto né rapace avrebbe dovuto sfiorare il corpo di Adamo e di Eva. Pur essendo caduti, o forse proprio a causa di quella caduta, Dio si prende cura dell’uomo e della donna persino nella loro intimità, nel loro essere maschio e femmina con una corporeità specifica.
Al credente di oggi la cultura moderna pone sfide mai affrontate prima d’ora. Penso alla non trascurabile affermazione di una mentalità pornografica, che vede nel corpo, nella sua esibizione, colto nell’atto intimo dell’unione di due persone, uno strumento di commercio. Penso all’affermazione di una mentalità ideologica che spinge a manipolare il corpo, a trasformarlo in modo esagerato e illogico: a forme di body modification (piercing e tattoo estremi) come anche alle più paradossali forme di cambiamento di sesso. Ma penso anche a determinati interventi di chirurgia plastica per restituirsi un’apparenza più giovanile o per assomigliare all’immagine coltivata nella propria fantasia.
Vestire gli ignudi è la boutique dell’usato dove i poveri possono scegliere i loro abiti, almeno quanto ogni intervento per aiutare gli uomini e le donne del nostro tempo a non mercificare il loro corpo, a rispettarlo, a non farne oggetto di violenza assecondando ogni capriccio.

  • Alloggiare i pellegrini

Al tempo in cui alberghi, locande, ospizi erano rarità, migrare e pellegrinare comportava il rischio di non trovare il modo di ripararsi in un alloggio. Ma anche in epoca in cui chi può permettersi di viaggiare o è costretto a farlo ma non ha problemi di denaro trova sicuramente accoglienza in qualsiasi parte del mondo, essere pellegrino, migrante, pone in modo drammatico le questioni della casa e della pacifica convivenza umana.
Soprattutto nel momento storico che stiamo conoscendo, con la guerra e la fame che premono alle porte dell’occidente europeo, si avverte l’urgenza di una risposta di fede, operosa e misericordiosa. Impossibile però non sottolineare come l’accoglienza di profughi, rifugiati, fuggitivi da miseria e oppressione prima ancora di costituire un appello alla coscienza religiosa rappresenta un doveroso impegno della comunità politica verso le più elementari regole di umanità, non codificabili in nessuna legislazione perché scritte fin dal concepimento nel cuore stesso di ogni persona. Il Signore ci preservi da quest’ondata di disumanità che sta attraversando l’occidente, il quale ha chiuso il cuore all’uomo prima ancora di costruire muri e barriere.
Esistono ambiti ancora non completamente esplorati di sensibilità ad alloggiare pellegrini. Mi riferisco al fatto, per esempio, di destinare abitazioni non occupate a chi non ha una vera casa. Mi riferisco al fatto, per esempio, che è particolarmente difficile avviare esperienze di housing sociale in riferimento a malati psichici che, a certe condizioni, potrebbero vivere in piccole comunità domestiche. Addirittura istituti religiosi spazi abitativi restano inutilizzati in attesa di tempi migliori o più confacenti! Vorrei dire a laici e religiosi che tutti i beni materiali che non vengono messi al servizio del Regno di Dio faranno vermi e polvere nel futuro e diventeranno una zavorra insopportabile fin dai giorni presenti.

  • Visitare gli infermi

Di solito andiamo volentieri in ospedale a trovare una mamma che ha avuto un bambino; visitiamo con trepidazione i nostri parenti ammalati; assistiamo amorevolmente le persone più care.
Le due opere di misericordia corporali che riguardano gli infermi e i carcerati descrivono le occasioni di visita ma non le riferiscono ai parenti: visitare i parenti infermi, visitare i parenti carcerati. In quel gesto della visita rivolto a persone sconosciute o conosciute casualmente è scritta tutta la tenerezza e la gratuità delle opere di misericordia corporali.
Viene da domandarsi quante volte abbiamo messo piede in ospedale non spinti da necessità personali o per dovere verso parenti e conoscenti. Scopriamo così che al cuore dell’opera della visita agli infermi sconosciuti – e conviene ora allargare: non solo in ospedale, anche in casa, o persino sotto i portici – si ritrova il cuore della gratuità del messaggio cristiano: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8), guarda caso legata esattamente ad una parte del mandato apostolico: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni”. L’esercizio di un ministero di consolazione tipico del cristianesimo si attua in modo preminente nel prendersi cura delle persone inferme.
Di clown dottori ai volontari negli ospedali, dalla preghiera per e con gli infermi alle visite parrocchiali presso le strutture ospedaliere: i momenti da costruire sono tanti e lasciano spazio solo alla fantasia. Durante il Giubileo della Misericordia perché non pensare, proprio a livello parrocchiale, guidati dal Parroco, d’accordo con i Cappellani di qualche ospedale, di partecipare ad una o più celebrazioni, di condividere un pasto con alcuni ospiti, di farsi presenti nei luoghi di cura e riabilitazione?
Un’occasione che nel tempo potrebbe diventare stile di testimonianza comunitaria.

  • Visitare i carcerati

La legge statale non facilita sicuramente l’incontro con i carcerati. Se non si hanno motivi di parentela per avere rapporti con i detenuti o non si è rappresentanti dello Stato o Cappellani autorizzati diventa praticamente impossibile poterli frequentare.
Tuttavia la stessa legge, almeno in Italia, consente a certe condizioni di prendersi cura anche dei carcerati. Di solito lo fanno Associazioni autorizzate, che organizzano in carcere corsi o attività lavorative. Non penso che non sia compito di una Parrocchia occuparsi dei carcerati, delegandone ad altri la cura. Se poi pensiamo che una parte consistente della popolazione carceraria affonda il suo malessere nel disagio sociale e nella povertà siamo consapevoli di quanto sia vasto il campo di azione per una comunità cristiana. Senza dimenticare che le condizioni in cui vivono i carcerati sono condizioni a volte subumane, che nulla hanno a che fare con una pena giusta ma piuttosto hanno il sentore della vendetta collettiva.
Penso sia giunto il tempo che le comunità cristiane di Roma, che non possono tecnicamente visitare i carcerati, adottino i detenuti. Sarebbe una grande novità. In accordo con i Cappellani che lavorano nel carcere e addirittura l’Autorità competente, ogni Parrocchia potrebbe prendersi cura dei detenuti di una sezione, con un sostegno economico in carcere se necessario ma anche e soprattutto con la preparazione del momento delicato del rientro nella vita sociale. Che gli uomini e le donne sulle cui spalle grava il peso delle colpe, possano trovare nei fratelli e nelle sorelle cristiani qualcuno che con loro condivida la speranza di una vita nuova.

  • Seppellire i morti

La coscienza morale che impedisce all’uomo di togliere la vita di un’altra persona è la stessa che obbliga l’uomo alla pietà verso coloro che sono morti.
Credetemi, le suggestioni sono tante. La prima che mi affiora è l’esigenza di quel rispetto della memoria di coloro che ci hanno preceduti, nell’oblio del male e nella gratitudine per il bene compiuto, che vuol dire anche non lederne la fama e amare quanti da loro sono stati generati.
I cimiteri moderni ci dicono che la conquista sociale del rispetto per il corpo dei defunti è una realtà ormai radicata. Realtà che potrebbe essere offesa da quanto si sente dire intorno alla compravendita di loculi e alle malversazioni dei dipendenti cimiteriali, ma che nulla toglie alla bontà di un diffuso atteggiamento protettivo verso i propri cari.
Oggi l’esigenza di questa opera di misericordia corporale impone a noi cristiani una rivisitazione del suo significato: non basta più seppellire i morti, occorre seppellire la morte. Occorre seppellire tutto ciò che causa la perdita della vita del proprio fratello e le mutilazioni del suo corpo. Si devono seppellire le armi, specialmente quelle più feroci come le armi nucleari, chimiche e biologiche; ma si devono anche limitare in modo consistente gli investimenti nel campo della ricerca e della costruzione di armi sempre più potenti e distruttive.
I cristiani possono essere dei sognatori, ma non sono degli illusi. Sappiamo quanto sia ancora impossibile azzerare la presenza di armi sulla terra, almeno nella prospettiva della difesa degli Stati, come sappiamo che si tratta di un processo non istantaneo. Ma se vogliamo prenderci cura in modo coerente e operativo dei nostri fratelli, a livello personale e comunitario, non possiamo smettere di impegnarci perché il disarmo diventi una realtà a livello planetario e la morte, causata dalla malvagità umana, dalla guerra e dai suoi lutti, possa davvero dirsi seppellita.

Quando Zaccheo fu visitato dal Signore, e senza che questi gli chiedesse nulla di tutto ciò, bastò quel gesto per spingere il pubblicano a dichiarare: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). La risposta del Signore è illuminante: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,9).

L’uomo, visitato nella sua corporeità da uno spirito benevolo ed accogliente, si trova faccia a faccia con una vita nuova. Sì, la misericordia salva.