Pastorale? Poca, grazie, e senza zucchero
Articolo comparso sul Bollettino Parrocchiale della Parrocchia San Gabriele Arcangelo di Roma, 1996
Cronaca di un terremoto annunciato, potremmo parlare per ore dei sommovimenti tellurici pre e post conciliari dagli effetti travolgenti nella vita ecclesiale dello scorcio di fine secolo. D’altra parte le nostre parrocchie rigurgitano, esuberano di fedeli preparati ad affrontare quotidianamente la fatica del lavoro pastorale.
Magicamente questa parola, aggettivata o sostantivata, ha riempito la bocca dei credenti d’ogni ordine e grado, conferendo al “cristiano impegnato” qualità insospettate e dignità nuove. La lingua ecclesialese ha forgiato persino un’ulteriore categoria, quella dell’operatore pastorale, intermedia tra i pastori propriamente detti e i laici “comuni”. Personaggi che con l’autorità della preparazione ad hoc inflitta per mezzo di corsi propedeutici, iniziatori, specializzatori si muovono disinvoltamente tra i più complicati spazi catechetici, liturgici, missionari, ecumenici, eccetera lasciati aperti dall’endemica penuria di clero. Tutto bene, dunque?
Sarà, ma a me questa pastorale non mi convince molto. Zuccherosa alla nausea, ha tutta l’apparenza di impoverire la dignità e il valore della pastorale e dei laici che la fanno. Affermazione opinabile, ma io parto da una convinzione precisa: la vita dello spirito, secondo la prospettiva cristiana, e la conseguente azione pastorale si devono caratterizzare per il loro valore secolare. Mi spiego.
Prendiamo tre figure di una certa risonanza nella storia dei credenti: Caterina da Siena, Giovanni di Dio, Ignazio di Loyola. Ho deliberatamente scelto persone consacrate per una ragione che spiegherò in seguito. Oltre questo, esiste un altro denominatore comune ai nostri tre. A differenza dei loro contemporanei, essi si sono guardati attorno e hanno osservato la realtà (evviva il realismo!) con gli occhi del cristiano, domandandosi: cosa manca? Cosa posso migliorare? Risultato: Caterina da Siena ha convinto il Papa a tornare da Avignone a Roma (per non parlare delle paci che è riuscita a propiziare); Giovanni di Dio (fingendosi addirittura pazzo) ha dato vita ad un ordine dedito alla cura dei malati; Ignazio di Loyola è stato promotore di istruzione e di educazione intellettuale attraverso una “compagnia” che ancora oggi occupa i vertici della cultura cattolica.
Tre persone diverse ma ugualmente consapevoli che occorre servire laddove esiste il bisogno di servire, e per far questo pronte a cogliere nel saeculum, nell’umile e ribollente caos del quotidiano vivere, i segni dell’ispirazione divina. Amara ispirazione, se le ha condotte ai limiti dell’incomprensione e alle frontiere del rifiuto. Oggi nessuno mette più in dubbio che la loro azione fu autentica pastorale, ma ai loro giorni ebbero da superare ben altre resistenze di quelle che noi, con la nostra solita scusa di non essere santi, poniamo alle urgenze presenti.
Cosa deduco dai fatti esposti? Deduco soprattutto la discriminazione tra il laico impegnato in servizi specifici all’interno delle domestiche mura parrocchiali e ritenuto perciò ecclesialmente pastorale, e il laico che evangelizza la cultura, la scuola, il sociale, il sindacato, la politica, i mass media e che stando alle correnti denominazioni è pastoralmente ininfluente. Errore, madornale errore di una mentalità ecclesiale preoccupata di conservare l’esistente e incapace di proiettarsi oltre, inventando nuove risposte alla realtà del saeculum, di questo secolo. Per intenderci, se fossimo vissuti a cavallo tra il quattrocento e il seicento con una mentalità del genere Caterina da Siena sarebbe rimasta in convento a pregare, Giovanni di Dio non avrebbe mai lasciato il manicomio in cui s’era fatto rinchiudere e Ignazio di Loyola poteva dire addio alle sue velleità intellettual-riformiste.
Se ho scelto come esempio tre persone consacrate e non tre laici non l’ho fatto per caso, ma per dire una cosa ben precisa anche a noi preti, un messaggio esplicito a non lasciarci rinchiudere nelle sacrestie delle nostre chiese. Ho l’impressione, infatti, che tra i primi a dover riscoprire il significato di “essere nel mondo” senza “essere del mondo” sia la nostra categoria. La teologia della storia, parlo a persone competenti, non solo ci insegna che la storia possiede una determinata direzione (va verso il definitivo possesso di Dio), ma che non si dà una storia pienamente umana se non si rende positivamente presente Dio nella storia, attraverso una quotidiana con-sacrazione della storia a lui. In altri termini: non si entra in paradiso in base al numero dei sacramenti celebrati, ma in forza del nostro impegno a trasformare la realtà storica secondo il progetto di Dio (“Avevo fame, sete, freddo… Ero disinformato, sottoistruito, descolarizzato… Ero vittima di lobbies politiche, economiche, culturali, massmediologiche…”). I mezzi per ottenere questi risultati possono essere diversi, e non deve essere esclusa a priori la preghiera, che rimane tra i più potenti.
Ma di qui a pensare la pastorale negli angusti termini entro i quali l’abbiamo ridotta ce ne passa. Col risultato che ci sentiamo in pericolo (parlo pure dei laici) non appena sentiamo dire che il nostro posto è nel mondo: molto meglio, ci suggerisce cautamente il subconscio, rimanere tra le calde e accoglienti pareti parrocchiali. Meglio di stupirsi che il Secondo Sinodo di Roma risulti ancora in larga parte sconosciuto e inoperativo o che la Missione Cittadina lanciata dal Papa colga di sorpresa le nostre comunità.
Sinceramente voglio sognare. Sogno una pastorale che consideri vita (vita interiore, vita dello spirito, nutrimenti insostituibili per vivere) il catechismo, la liturgia, la missione, l’ecumenismo, eccetera. E consideri pastorale (luogo di azione, punto di convergenza degli sforzi congiunti di ogni credente, teatro della vittoria cristiana sul degrado e sulla morte dell’uomo) il lavoro, la scuola, la famiglia, gli amici, il tempo libero, eccetera, insomma la vita. E se proprio dobbiamo dirla tutta, basta con il melenso: la vita, bella finché si vuole, è ruvida, scorre difficile, non è dignitoso edulcorarla con pastorali poco realistiche. A voler essere cristiani ad ogni costo, anzi, ci si accorgerà che prendere sul serio la vita vuol dire fare pastorale di uno spessore importante: anche se poca, purché senza zucchero.