Pieni di fede e di Spirito Santo

Questo articolo è la meditazione dettata durante un corso di Esercizi Spirituali. Per il corso completo e il download dei testi clicca qui.

Preghiamo

O Dio, nostro Padre, che rallegri la Chiesa con la festa degli apostoli Filippo e Giacomo, per le loro preghiere concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto. Tu vivi e regni per sempre. Amen.

Nella sua autobiografia Ignazio ricorda distintamente che durante la convalescenza grazie alla quale iniziò il suo percorso di “conversione” avendo richiesto qualche libro da leggere i suoi ospiti non trovarono libri cavallereschi e “così gli diedero una Vita Christi e un libro di vite di santi in volgare” (Autobiografia 5). Dalla lettura di quei testi Ignazio colse la differenza tra i vari “sentimenti reattivi”, potremmo dire quasi “emozioni”, che fu alla base del successivo “discernimento degli spiriti”.

Non può meravigliare, quindi, se nel nostro percorso settimanale lungo la via fidei ci imbatteremo in personaggi, figure di santità, con le quali converseremo intorno alla loro fede. Del resto il tema stesso dei nostri Esercizi, collocati nel cuore dell’anno della fede, richiama in modo esplicito una riflessione intorno a questa virtù: “Fisso lo sguardo su Gesù Cristo, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento (Eb 12,2)”.

La figura con la quale vorrei aprire i nostri Esercizi è quella di Santo Stefano, il santo chiamato con il titolo di protomartire perché sembra essere stato proprio lui il primo cristiano ad aver confessato la sua fede fino all’effusione del sangue.

La sua storia viene narrata nei capitoli 6 e 7 degli Atti degli Apostoli e il santo viene ricordato anche all’inizio del capitolo 8, laddove Luca, autore degli Atti, dice che “Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione” e che “persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui” (8,1-2).

Chi è Stefano

Ma chi è questo santo e perché dovrebbe occupare un posto all’inizio di un corso di Esercizi sul tema della fede? Cerchiamo di conoscerlo meglio.

Abbiamo occasione di conoscere questo personaggio per via dell’esigenza incontrata dalla chiesa di Gerusalemme di provvedere alle necessità dei suoi poveri. Gli Apostoli si rendono conto di una crescita di fedeli che comincia a creare qualche problema organizzativo e perciò decidono di suddividere i compiti. Invitano la comunità a segnalare alcune persone che possano aiutarli “per il servizio delle mense”; saranno loro i primi “diaconi” della storia della Chiesa.

I discepoli segnalano sette nomi: “Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola” (6,5). Stefano compare come primo; solo di lui si precisa che si trattava di un “uomo pieno di fede e di Spirito Santo”. Questo riferimento alla fede non passa inosservato. Non che gli altri diaconi non fossero “fedeli”, “credenti”, ma di Stefano è detto che è “pieno” di fede, quasi che non vi fosse più spazio per aggiungerne altra. Forse da qui possiamo anche dedurre che esiste una gradualità nella fede, che esiste un meno e un più di fede, la quale in una persona può raggiungere il colmo come l’acqua fino al bordo del bicchiere.

Risuona ancora nei nostri orecchi la supplica degli Apostoli: “Aumenta la nostra fede!” (Lc 17,6). Potrebbe valere anche per noi questa preghiera. La risposta del Signore giunge spiazzante, non solo perché sferza gli stessi Apostoli (“Se aveste fede quanto un granellino di senapa…”) ma soprattutto perché chiama direttamente in causa il loro “servizio” con l’ennesima parabola:

Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare (17,7-10)

Non passa inosservato il fatto che Luca sia nel vangelo che negli Atti sembra narrare di un forte legame esistente tra fede e servizio, fede e diaconia. Agli Apostoli che chiedono un aumento di fede Gesù risponde offrendo un aumento di servizio; a Stefano “pieno di fede”, cioè con una fede oltre la quale non era possibile andare, il Signore risponde con la diaconia e il martirio. Ma al termine della loro vita anche gli Apostoli incontreranno la testimonianza suprema per il Signore. Vi suggerirei di stare attenti a quello che chiedete, nelle vostre preghiere!

Direi in ogni caso che la buona ragione per aprire un corso di Esercizi Spirituali focalizzato sul tema della fede con la figura di Stefano protomartire è che lui è “uomo pieno di fede”!

Il contesto ecclesiale di Stefano

Soffermiamoci ad osservare ora più da vicino il contesto nel quale agisce Stefano. Evidentemente per essere stato “eletto” dalla sua comunità, nella quale erano sorti conflitti tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal paganesimo, doveva trattarsi di un uomo conosciuto, fidato, incline al bene senza distinzioni di persone. Si potrebbe anche dire, forse, che insieme agli altri diaconi era un uomo di pace.

Luca, sempre incline a giudizi esaltanti su una Chiesa apostolica che lo affascina, ricorda con soddisfazione che “la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (6,7). L’autore degli Atti degli Apostoli però non aveva avuto riserve nel riconoscere quei momenti nei quali la Chiesa aveva mostrato un volto contraddittorio, sia nel già ricordato episodio del capitolo 6, sia in altre occasioni come quando Giovanni, soprannominato Marco, a Perge si separò da Paolo (13,13) forse per un dissidio; o quando Paolo e Barnaba si opposero ad una visione mosaica della nuova fede cristiana (15,2); oppure quando il dissenso tra Paolo e Barnaba a causa del Marco di cui sopra divenne tanto forte da separare le loro strade (15,39) per quanto fosse stato proprio lo Spirito Santo a dire: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (13,2).

Nonostante questo Luca osserva che “la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (9,31). La verità che pare imporsi nella lettura del racconto è ancora una volta quella della capacità degli uomini dello Spirito di saper leggere la storia con lo sguardo dello Spirito. Agli occhi di Luca la denuncia del peccato, la scoperta delle debolezze umane, le storture che troviamo persino oggi nelle nostre comunità cristiane, oltre che nella nostra vita personale, non rappresentano un ostacolo all’azione dello Spirito, anzi sembra quasi che ne preparino la strada.

In realtà come già ebbe a dire Papa Giovanni Paolo II

il riconoscimento e la consapevolezza del peccato è frutto di una sensibilità acquisita grazie alla luce della Parola di Dio (Udienza generale 8/5/2002, n. 5)

 cioè a dire che grazie alla luce potente di quella stessa Parola che all’inizio dei tempi creò la luce lo sguardo dell’uomo sul suo intimo e sul peccato si raffina al punto di poter riconoscere ed ammettere il proprio peccato non con senso di disperazione.

Papa Benedetto XVI esprime lo stesso concetto in un memorabile commento sulla preghiera di intercessione di Mosè.

La richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio (Udienza generale 1/6/2011).

Non credo che la Scrittura e il Magistero della Chiesa vogliano insistere sul peccato per suscitare nell’uomo che ascolta un senso di inferiorità o di commiserazione. L’intento di Dio invece risulta quello di spingere sempre l’uomo verso la verità, la quale lo impegna a rifiutare il male e a compiere il bene. Non siamo chiamati a scandalizzarci del peccato, nostro personale e di quello della Chiesa – intesa come comunità di credenti, quindi anche nostra comunità -, siamo invece mossi dalla fede e dallo Spirito Santo a riconoscere e denunciare il peccato, pregando e intercedendo perché tutti gli uomini si lascino perdonare e trasformare da Dio.

Solo in questo modo la Chiesa può dirsi in pace, può crescere, camminare nel Signore e sentirsi confortata dallo Spirito.

Stefano e l’ambiente non cristiano

Dagli Atti pare che Stefano si fosse guadagnato le antipatie dell’ambiente non cristiano. Tra i versetti 8 e 9 del capitolo 6 cerchiamo di comprenderne ragioni e conseguenze. Stefano, dice Luca, “pieno di grazia e di fortezza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo”. L’evangelista narratore non trascura di aggiungere nuovi particolari intorno alla figura di Stefano. Ora ci appare pieno sì, ma di “grazia” e di “fortezza”. In italiano noi ricordiamo nel vangelo, sempre quello di Luca, un’altra persona della quale si dice che è “piena di grazia” ed è Maria all’annuncio dell’angelo (Lc 1,28). La traduzione in questo caso appare fuorviante.

Infatti le espressioni usate per definire la pienezza di grazia in Maria e in Stefano sono molto diverse nella lingua greca. Maria, leggendo dal testo originale, viene detta κεχαριτωμένη (checharitomène), un verbo forse traducibile con “fatta da Dio grazia in persona”. Stefano più semplicemente è πλήρης (plères), “pieno” di grazia, il medesimo termine che compare sia al versetto 5 in riferimento a Stefano, sia anche al versetto 2 in riferimento agli “uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza” cui affidare il diaconato. Stando alle parole di Luca, Maria è quella creatura che Dio non si è contentato di “riempire” della sua grazia ma di renderla “grazia in persona”. La missione di Maria non era quella di compiere prodigi e miracoli, non ce ne sono narrati durante la sua vita. Il prodigio compiuto da lei è stato quell’atto di fede che l’ha portata a diventare Madre del Redentore e a vivere la sua vita per donarcelo.

Stefano invece compie “prodigi e miracoli tra il popolo” pieno di fortezza. Il termine greco richiama non solo la forza “bruta” necessaria, per esempio, a sollevare un peso, ma anche il “dinamismo”, la forza incessante di un ruscello che scorre, di una pietra che rotola, di un uragano che soffia. La spiritualità di Stefano appare sempre più ancorata all’immagine dello Spirito, di quello Spirito di cui egli si mostra “pieno”, Spirito che come un pazzo entra nella stanza dove gli Apostoli sono riuniti in preghiera e li spinge ad uscire (cfr At 2,2). La sua fede, quella di un uomo docilmente aperto all’azione dello Spirito, lo porta incessantemente a muoversi, a non ristagnare né a ritenersi soddisfatto dei risultati conseguiti. Allo stesso tempo la solidità della grazia che lo sostiene non lo fa deviare dal cammino, lo rende capace di trasmettere ciò che ha ricevuto in dono, la fede in Cristo.

L’occasione della testimonianza gli viene data dalla “disputa” da parte di “alcuni della sinagoga detta dei “liberti””. I liberti erano schiavi ai quali i padroni avevano reso la libertà. Non acquisivano mai gli stessi privilegi degli uomini nati liberi, ma quantomeno non erano più soggetti ad un padrone, pur continuando a vivere spesso a casa di chi li aveva liberati. Perciò sembrerebbe che la disputa nasca da parte di alcuni ebrei di origine nordafricana (Cirene, Alessandria) e asiatica (Cilicia, Asia in generale) un tempo schiavi, ora riuniti in una loro sinagoga. Mentre il nome di Stefano, insieme ad altri elementi, sembrerebbe suggerire un’origine greca del santo, dunque con un retroterra che oggi non esiteremmo a riconoscere di cultura raffinata ed elevata, la presentazione che Luca fa dei suoi avversari pare quella di gente semplice e di umili origini ma solidamente ancorata alle tradizioni giudaiche.

Convertirsi a Gesù

Luca annota però che i “liberti” “non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui parlava” Stefano (v. 10). La disputa non riguarda argomenti filosofici o scientifici, sui quali forse Stefano avrebbe potuto dimostrare solide basi, ma su argomenti di fede ebraica, come riporta il successivo capitolo 7, dove i “liberti” per quanto di umili origini avrebbero avuto ben più facile mano rispetto ad un greco convertito al cristianesimo. Stefano, accusato ingiustamente, viene condotto davanti allo stesso sinedrio che aveva condannato Gesù a morte e lì in un lungo discorso ripercorre la storia della salvezza, toccando i temi più cari al giudaismo classico. Ma il cuore dell’intervento di Stefano si racchiude in poche, scandalose parole:

O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata (7,51-53).

 L’atto di accusa che Stefano rivolge ai giudei e che scatena la loro reazione rabbiosa si ricollega a tutta la storia profetica del popolo di Israele, stabilendo un preciso confine tra un “voi e i vostri padri” del passato delittuoso e un “noi”, nemmeno troppo sottinteso, appartenenti all’avvento del Giusto. La voce di Stefano, però, non è destinata a tracciare il confine temporale tra l’”allora” e l’”oggi”, quasi come se le sue parole avessero valore solo nel contesto storico nel quale sono state pronunciate.

Al cospetto di parole tanto severe e gonfie di dolore è posto il credente di ogni tempo. Quel credente che potrebbe essere o diventare “testardo nel cuore e nelle orecchie” e “pagano nel cuore e nelle orecchie”, due espressioni che meritano grande attenzione. Esse richiamano da una parte l’esigenza di un sentire in profondità (“cuore”) e dall’altra l’esigenza di un ascolto intelligente (“orecchie”); esse denunciano il rischio costante dell’intestardimento, della chiusura totale alla novità, dell’innamoramento delle proprie idee e delle proprie decisioni, il rifiuto di ogni confronto; esse denunciano il rischio che l’apparente sicurezza religiosa non nasconda invece superficialità ai limiti del paganesimo, la fede in un dio che non è il Padre di Gesù Cristo, la contraddizione della rivelazione.

Le intenzioni di Stefano nel formulare l’atto di accusa sono certamente quelle di “disputare” con i suoi accusatori. Stefano rovescia su di loro le accuse che lui stesso aveva ricevuto, quelle cioè di aver pronunziato “espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio” (v. 11), di non cessato “di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge” (v. 13) e anzi di aver annunciato che “Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè” (v. 14). In realtà nel discorso di difesa di Stefano non compare nulla che autorizzi a confermare le accuse e la sua sembra piuttosto essere una autentica professione di fede ebraica.

Il dramma si consuma quando “Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (vv. 55-56). Lo sguardo di Stefano si solleva e la sua visione indica la nuova strategia di Dio, quasi il coronamento (Stefano) della professione di fede del santo: il Giusto Gesù rifiutato dagli uomini è il Figlio dell’Uomo seduto alla destra del Padre. In questa visione si trova tutta l’urgenza di una chiamata a conversione che gli ascoltatori di Stefano non colgono, ritenendola invece una bestemmia. E cosa ci sia di tanto blasfemo in quella visione dovremo ancora approfondirlo.

Ma la chiamata a conversione resta immutata. L’uomo intestardito e impaganito, infatti, è capace solo di distruggere il bene che lo circonda, come dimostra l’omicidio di Stefano, che fino all’ultimo istante della sua vita si dimostra l’uomo pacifico chiamato al servizio della comunità: “Signore, non imputar loro questo peccato” (v. 60). Qui più che altrove diventa chiaro che una conversione reale non si ha semplicemente con una conversione di tipo morale (non commettere il male) ma con una conversione tanto profonda che coinvolgendo l’intera persona si potrebbe definire esistenziale. La conversione alla quale siamo chiamati e che preghiamo di ottenere noi e l’umanità intera è la conversione a Gesùautore e perfezionatore della fede”.