Presentazione degli Esercizi Spirituali: “Quale gioia quando mi dissero…”

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2. Presentazione degli ES: “Quale gioia quando mi dissero…”

Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà,
la mia memoria,
la mia intelligenza
e tutta la mia volontà,
tutto ciò che ho e possiedo;
tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono;
tutto è tuo, di tutto disponi secondo ogni tua volontà;
dammi il tuo amore e la tua grazia; questo mi basta.

S. Ignazio

 

Nell’enciclica Novo Millennio Ineunte San Giovanni Paolo II con molta saggezza, al termine del Grande Giubileo del 2000, si chiedeva come sarebbe stato opportuno continuare, come la chiesa avrebbe dovuto affrontare il III millennio cristiano. Tra le varie risposte, ecco emergere decisa quella della necessità di rinnovare le scelte di comunione della chiesa: “La Chiesa, casa e scuola di comunione” (NMI, 43). La visione del Papa è estremamente positiva. La chiesa ha una vocazione naturale ad essere “casa” e “scuola” di comunione.

La “casa” evoca molte suggestioni.

Il primo pensiero corre in modo spontaneo alle parole del salmo 122,1: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore”. Vi si ritrova espressa l’idea del cammino. Vi si ritrova espressa l’idea del movimento. Allo stesso tempo l’aspirazione alla casa, desiderio che mette in cammino, in movimento, riceve conforto dal sapere che non è una casa qualsiasi: è la casa del Signore, è là dove abita Dio.

Nessuno si pone in cammino senza avere una meta da raggiungere. Anzi, ogni viaggio prevede proprio che in precedenza sia stata stabilita la meta. La domanda che è necessario porre a ciascuno di noi iniziando il cammino degli Esercizi è semplice e allo stesso tempo decisiva: dove vogliamo giungere? Quale meta ci possiamo dare? Non si tratta solo della domanda, legittima, che nasce ogni qualvolta siamo in procinto di intraprendere una nuova attività. Si tratta invece dell’interrogativo ineludibile della vita di ogni cristiano. La cui risposta finisce per permeare ogni azione e ogni pensiero.

Pensando alla casa torna in mente un personaggio del vangelo, quel giovane che lascia la casa del padre misericordioso. Nel momento della carestia e del bisogno non è la figura paterna a tornare alla sua memoria, ma è la “casa” del padre: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza…” (Lc 15,17). La nostalgia della casa mette in movimento, dà l’input della conversione.

 

Il salmo 122 fa parte di quel gruppo di salmi che vengono chiamati “cantici delle ascensioni” (120-134). I pellegrini in viaggio verso Gerusalemme li recitavano e li cantavano. Gerusalemme è posta su di una collina non molto alta. Ma per arrivarci, soprattutto passando dal deserto di Giuda e provenendo da Gerico, occorreva superare un dislivello notevole. La fatica si faceva sentire. Il canto e la preghiera aiutavano un poco a mitigare le sensazioni sgradevoli dell’ascensione. Soprattutto riportavano alla mente la meta, quella Gerusalemme dove il Signore aveva la propria casa. I pellegrini avevano lasciato la loro casa. Avevano intrapreso il viaggio alla ricerca di una nuova casa. Qualcuno oggi direbbe: della vera casa. La casa che avevano lasciato, però, non era una “falsa” casa. Avevano lasciato “casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi“ (cfr Mc 10,29), affetti e beni materiali, per mettersi in viaggio verso una città dove non avrebbero trovato quello che avevano lasciato. È importante anche per noi, oggi, comprendere che gli Esercizi Spirituali non ci faranno trovare le stesse cose che abbiamo lasciato. Sarebbe assurdo e sciocco da parte nostra pensarlo. Credo che nessuno di noi desideri realmente trovare consolazioni affettive, emozioni forti, compensazioni per le rinunce fatte nella vita. La stessa fede ci mette in guardia dal pensare di poter raggiungere una certa tranquillità nella vita al di fuori di Dio (Lc 12,13-21).

 

Se è vero, infatti, che il pellegrino, lasciandosi alle spalle la sua casa, non si attendeva di trovare qualcosa di analogo a Gerusalemme, giunto nella città non trovava però una casa vuota. Trovava la casa del Signore. Il tempio di Gerusalemme doveva apparirgli in tutta la sua grandezza e maestosità; i suoi riti e le grandi celebrazioni pubbliche l’avrebbero preso e trascinato verso una gioia estatica. Le stesse mura di Gerusalemme, le sue porte, le sue strade avrebbero avuto per lui un significato diverso da quello di tutte le altre città, essendo il contorno di quel tempio dove aleggiava la presenza di Dio. Un tempio non vuoto. Anche Gesù ebbe a dire qualcosa in proposito: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri” (Mt 21,13). Il pellegrino Gesù vede quello che altri non vedono. È un profeta. Gli altri, noi, vediamo le cose belle, le belle pietre e i doni votivi che adornano il tempio (Lc 21,5). Ci fermiamo alla superficie. Ci lasciamo incantare dalle apparenze. Persino davanti alla casa del Signore. Lui invece no, guarda più a fondo. Vede che quella casa non è vuota perché riempita della presenza di Dio. E che formalità, ritualità, purezza hanno tutte senso solo se finalizzate all’incontro amoroso con Dio, la preghiera, appunto. Si può pregare come si preferisce. Si può avere una preghiera ufficiale degna e bella. E si può essere con il cuore distanti da Dio perché si è riempita la casa di cose e di gente inutile lasciandone fuori proprio lui, Dio.

 

Il pellegrino arrivato a Gerusalemme entrava nel tempio. Sapeva bene che quel tempio era stato costruito da Salomone, il re saggio ma non troppo. Infatti Salomone sapeva giudicare saggiamente del suo popolo, ma non altrettanto saggiamente delle cose personali che lo riguardavano (1Re 11,1…). Il padre Davide gli aveva preparato buona parte del materiale occorrente per costruire il tempio. Salomone aveva indebitato il paese fino al collo per procurarsi i materiali migliori e più preziosi per completare la costruzione. Si era anche fatto costruire la reggia accanto al tempio. Come per tante altre vicende della storia umana, anche questa ha la sua piccola ambiguità: la costruzione del tempio richiese meno tempo della costruzione della reggia. Quasi a dire che Salomone abbia tenuto più a sé che al nome del Signore. Di questa ambiguità è disseminata la storia della fede. Sono veramente molte le circostanze in cui i credenti, e persino le persone più in vista, preti, vescovi, religiosi, asserviscono le “cose di Dio” alla propria sete di prestigio, di onore, di benessere. Con la scusa di costruire qualcosa per Dio, cercano di procurare qualcosa per sé. Sono quanti accumulano ricchezze e beni (non solo materiali) per sé e non arricchiscono davanti a Dio.

 

Nonostante l’ambiguità del comportamento di Salomone, Dio pare accettare l’edificazione del tempio quale luogo della sua abitazione. L’arca dell’alleanza viene portata dai sacerdoti nel cuore del tempio. Mentre i sacerdoti e il popolo pregano, cantano, lodano il Signore si ripete il prodigio già accaduto nel deserto: una nube riempie il tempio. L’autore del secondo libro delle Cronache si affretta a chiarire che il tempio si riempì “della gloria del Signore” (5,13). Arca dell’alleanza e nube erano stati ammaestramento e guida del popolo di Israele profugo nel deserto. Dio aveva allora abitato sotto una tenda (2Sam 7,6). Ora prende possesso di una “casa di cedro”. Nel suo comportamento Dio dimostra tutta la sua abilità pedagogica. Insegna al suo popolo a fidarsi di lui nel deserto; offre al suo popolo una presenza con cui potersi relazionare; lo obbliga a pensare in grande, a non contentarsi di cose mediocri. Non sarebbe dignitoso per lui, Dio, essere venerato in modo mediocre; ma non sarebbe nemmeno dignitoso per l’altro, il popolo, venerare il Signore degli eserciti senza mettere in gioco tutte le proprie risorse.

 

La costruzione della casa del Signore, del luogo sublime dove il Signore avrebbe posto per sempre la sua dimora (6,1s) aveva richiesto il contributo di molti specialisti. La bibbia ne cita uno, tanto il suo lavoro non doveva restare oscuro: Curam-Abi, figlio di una donna della tribù di Dan e di un padre di Tiro (2Cr 2,12-13). Questo sapiente e valido artigiano era stato suggerito a Salomone da Chiram, re di Tiro. È importante osservare che alla costruzione del tempio partecipano anche specialisti non ebrei e non credenti. Curam-Abi, secondo il diritto ebraico, appartiene al popolo di Israele, essendo nato da madre ebrea. Ma la paternità tradisce una vicenda che, se non ci è lecito fantasticare, però getta qualche ombra sulla reale consistenza della fede della madre. Ella non ha sposato un ebreo, ella non risiede in Israele. Le ragioni di questo comportamento possono essere diverse, ma nessuna di loro è positiva.

 

Il primo libro dei Re, che ci racconta la stessa storia con altri particolari, dice che l’artigiano si chiama Chiram e la madre, discendente di Néftali, è vedova (7,13). Dan e Néftali sono i due figli di Bila, schiava di Rachele, la moglie bella e sfortunata di Giacobbe (Gn 30,1-8). Daranno origine a due tribù di Israele. Quando Gacobbe benedirà i suoi figli in punto di morte, dirà di Dan: “16Dan giudicherà il suo popolo come ogni altra tribù d’Israele. 17Sia Dan un serpente sulla strada, una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo e il cavaliere cade all’indietro. 18Io spero nella tua salvezza, Signore!” (Gn 49,6-18). A Néftali invece dedica solo poche parole, dal significato perlopiù oscuro, riferito alla sua bellezza e alla sua capacità di mettere al mondo una bella progenie: “21Nèftali è una cerva slanciata che dà bei cerbiatti” (Gn 49,21). La madre dell’artigiano eredita dai suoi progenitori due caratteristiche: è mordace e pericolosa; la sua prole si caratterizza per l’avvenenza, e basta. Davanti ad una figura di questo genere non si può far altro che ripetere le parole della benedizione del padre Giacobbe: “Io spero nella tua salvezza, Signore!”.

 

Chi partecipa alla costruzione della casa del Signore può avere delle contraddizioni che a volte ci risulta difficile comprendere e accettare. Eppure, quello che il Signore richiede è semplicemente di mettere a sua disposizione ciò che si è e ciò che si sa fare. Nulla di più. Nulla di meno. Con il cuore aperto alla speranza rivolta verso il Salvatore.

 

Allo stesso tempo attorno alla casa del Signore si muove un numero imponente di personaggi. Si muovono i sacerdoti, i leviti, gli inservienti. Si muovono i giovani. Si muove il popolo indistinto. La casa del Signore, abitata da lui, non è vuota. La sua presenza ha anche il potere di catalizzare la presenza degli uomini. Dio non ama la solitudine. Risuonano i suoi pensieri in occasione della creazione dell’uomo: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18). Il significato va oltre un mero senso di opportunità. Non è semplicemente “disdicevole” che l’uomo sia solo; è qualcosa “non buono”. La bibbia con pudore evita di dire espressamente che si tratta di un “male”. Certamente la condizione di tante persone “single” anche nel passato avrà orientato la scelta verso un’espressione meno cruda. Ma il significato principale resta immutato: la relazione con altri esseri umani è un bene. La solitudine non è un bene. Non tanto la solitudine del monaco, e nemmeno la solitudine del misantropo. La solitudine di chi non può entrare in relazione con nessuno, mancando l’apporto indispensabile di un’alterità. La solitudine di chi non può “essere comunità”, “essere famiglia”. Nella creazione dell’uomo, Dio mostra di creare non un “essere”, ma un “essere-in-relazione”, una “persona”; e ancora di più: crea l’uomo non tanto “persona individuale”, quanto “persona-comunità” (e non “collettiva”, dove l’individualità sembrerebbe diluirsi fino a sparire), come “persona-famiglia”.

L’altro, l’uomo e la donna posti al nostro fianco, sono medicina che bonifica la nostra umanità, rendendola non un privilegio da far valere ma un dono da condividere. Così nel tempio, nella casa del Signore, divenuta casa di preghiera, Salomone pronuncia le parole della consacrazione e chiede al Signore, che non può essere contenuto dai “cieli dei cieli” di ascoltare in quella casa le parole del suo popolo (2Cr 6). Le richieste di perdono, le suppliche nel bisogno, le ammissioni di colpa e di responsabilità in caso di sconfitta dal nemico… Un popolo entra nella casa del Signore e ed essa diventa la “casa del popolo con il Signore”. La solitudine è sconfitta dalla presenza di Dio e dei fratelli nello stesso luogo, con gli stessi obiettivi, davanti da un unico Dio.

 

Abbiamo in tal modo compiuto due passaggi molto significativi del nostro percorso. Abbiamo compreso che il luogo scelto da Dio per abitare in mezzo agli uomini, il suo tempio, può essere considerato una “casa”. Esso diventa luogo di incontro, in quanto “contiene” tanto l’Uno quanto gli altri. Ma abbiamo compreso pure che la casa non è solo il luogo, l’edificio dove abitare. “Casa” è anche chi l’abita, è chi occupa quello spazio. È ciò che occupa il tempio a conferirgli valore e importanza, e non il contrario, come aveva ben risposto Gesù a quei farisei preoccupati di giustificare tutto, persino la trasgressione di comandamenti più gravi, stravolgendo il valore reale delle cose (Mt 23,16-22).

L’enfasi e il coraggio con cui Salomone si rivolge a Dio fanno pensare bene ad un rapporto tra persone che si conoscono e si rispettano, ma soprattutto che sono intime tra loro. L’intimità con Dio caratterizza il rapporto del credente con il tempio abitato da lui (Lc 18,9-14).

 

Dobbiamo abbandonare ora l’immagine della casa di Dio rappresentata dal tempio di Salomone e da tutto ciò che gli gravita attorno. Dobbiamo fare un salto di diversi secoli per giungere al cristianesimo. Sapete che il cristianesimo ha abbandonato il culto del tempio così come proposto nell’ebraismo, ma anche in religioni diverse. Il culto del tempio viene “interiorizzato”. Cristo è il tempio in cui abita la pienezza della divinità. Gli uomini sono tempio dello Spirito Santo. La comunità dei credenti è pervasa dalla presenza di Dio. Del resto, rinunciando alla pratica dei sacrifici animali secondo l’uso ebraico, il cristianesimo ha di fatto ratificato l’inutilità del sacerdozio levitico e dell’edificio del culto, cioè del tempio, comunque scomparsi anche dalla tradizione ebraica per le solite misteriose vie della storia.

Nonostante tutto ciò, il termine “tempio” non scompare dal linguaggio cristiano, e spesso viene proposto come sinonimo di “chiesa”, laddove quest’ultimo termine vada a significare la costruzione che ospita la chiesa – comunità di credenti per le sue celebrazioni, i suoi riti, e finalmente le sue attività pastorali. Non è stato difficile alla sensibilità popolare attribuire alla chiesa-edificio un valore analogo a quello del tempio antico. La chiesa-edificio prende molte delle caratteristiche del tempio antico, ma anzitutto quella di essere “casa” del Signore. Peraltro in ciò aiutata dalla consuetudine di conservarvi le specie eucaristiche e di esporre immagini e statue per facilitare la preghiera dei fedeli.

 

In nessun altro luogo più di questo si avverte la necessità di fare chiarezza. E di comprendere il valore della “casa del Padre”, in tutto il suo spessore evocativo e reale. Si tratta non di costruire edifici, ma, come dice il profeta Natan a Davide, di lasciarsi costruire dal Signore fino diventare “grandi” (2Sam 7,11). La metonimia della chiesa-edificio per la chiesa-comunità è indicativa di un processo di identificazione sempre in atto. Il luogo geografico, ora come in passato, fa incontrare le persone, le fa riconoscere, le unisce in un riparo comune. Ma nella prospettiva della fede, se il luogo geografico non mette il credente in relazione con il Signore, egli perde tutto il suo valore e non è più in grado nemmeno di offrire la corretta identità a chi lo frequentasse. La chiesa-edificio, come la chiesa-comunità, prima di essere luogo di incontro con le persone deve essere luogo di incontro con Dio. Solo a questa condizione è possibile che l’incontro delle persone non sia ridotto ad un vago happening fosse persino di tipo spirituale (ma anche archeologico, artistico, musicale, culturale…), ma possieda invece lo spessore della familiarità ritrovata, quella che chiamiamo comunione e che discende da ciò di cui San Paolo ci rende consapevoli: il nostro essere concittadini dei santi e familiari di Dio (Ef 2,19).