di Ugo Quinzi
La mia famiglia si è trasferita ad abitare a Decima ai primi del gennaio 1974. Il quartiere era circondato dall’aperta campagna, nella marrana pascolavano i greggi di pecore e io, appena undicenne, le rincorrevo tra le collinette per giocarci, finché un giorno un cane pastore intese male le mie intenzioni e pose fine alla mia carriera bucolico-pastorale.
Don Mario Cipolletti è stato il parroco della prima comunione e della cresima. A quel tempo c’era solo la “chiesetta piccola”, troppo piccola per accogliere la pipinara dei ragazzini della prima comunione. Che per questo svolgevano la loro preparazione a casa delle catechiste, le “mamme catechiste”. Con la scusa che eravamo tutti ragazzini, le “mamme catechiste” ci facevano sempre trovare un dolce, un cioccolato, le bibite. E andare a catechismo era un’esperienza piacevole, al di là degli strafalcioni teologici.
Don Mario mi insegnò a ciclostilare. Si scrivevano gli articoli per “Dialogo“, il periodico parrocchiale, si stampavano e si distribuivano le copie. Una tecnologia di prim’ordine con una diffusione capillare che oggi farebbe invidia a tanti quotidiani cartacei ben più blasonati. Don Mario amava viaggiare, organizzava le sue ferie per andare all’estero, in qualche nazione strana, è stato persino in Cina, quella d’una volta, ben più maoista, altro che oggi. E realizzava diapofilm che poi montava, corredandoli del sonoro, per proiettarli ai suoi parrocchiani e condividere la storia di un viaggio.
Don Mario incaricò me, adolescente, di preparare lo Statuto del primo Consiglio Pastorale insieme al compianto dott. Caso. Fu un’avventura, mi permise di approfondire le tematiche di un Concilio ancora fresco e di innamorarmi del modello di chiesa sinodale che ne usciva fuori. Don Mario mi nominò – a norma dello Statuto – Segretario del primo Consiglio Pastorale della Parrocchia. Prendevo appunti, tornavo a casa e battevo i verbali a macchina. Non avevo la spillatrice per spillare insieme i fogli e don Mario me ne regalò una. La conservo e la uso ancora. Sempre quella. Dopo 40 anni.
Don Mario organizzava una mostra vendita di libri nell’angusta stanzetta parrocchiale. Fu lì che acquistai la copia delle Confessioni di Sant’Agostino che mi ha tenuto compagnia per tutti questi anni. Imparando così, dall’esperienza narrata e riflettuta, a conoscere il volto umano della santità.
Un giorno fu annunciata l’elezione di un vescovo, suo amico e compagno di Collegio, e io a bruciapelo gli domandai: “E lei? Perché ha rifiutato di fare il vescovo?”. Don Mario trasecolò e con un filo di voce disse: “Ma questo non lo posso dire! È un segreto pontificio…”. S’interruppe quasi a chiedere: tu come lo sai? Io non lo sapevo, avevo tirato a indovinare. E avevo indovinato. Don Mario era un prete vero, un prete che tanto aveva amato la Parrocchia S. Maria Mater Eccesiae e desiderato di vederla compiuta, con quella prima pietra della “chiesa del Concilio” (come presentava la sua Parrocchia) ricevuta da Paolo VI e per decenni esposta in sacrestia, al punto da rifiutare ogni altro incarico.
Don Mario è stato il sacerdote che ha sottoscritto la mia lettera di presentazione all’Almo Collegio Capranica. Quando gli confidai la mia intenzione di diventare prete lui non ebbe esitazioni. L’allora rettore, mons. Gualdrini, era suo amico e mi ricevette subito. Io ignoravo l’esistenza di un Pontificio Seminario Romano: il mio parroco mi aveva inviato lì, quello ai miei occhi doveva essere per forza il seminario di Roma. Ma non riuscimmo ad organizzare la mia ordinazione presbiterale nella “chiesa grande” perché nello stesso giorno erano previste le Cresime. E quindi don Mario nemmeno potette venire di persona.
Andai a trovare don Mario in Parrocchia il giorno dopo, di pomeriggio. Era domenica, l’Ascensione. Salimmo in canonica, ci sedemmo a un tavolo, non ricordo bene cosa mi offrì. Iniziai a parlare dandogli il “lei”, come avevo sempre fatto. Mi interruppe. “Ormai siamo entrambi sacerdoti – disse -. Penso che possiamo darci del tu”. E compresi lì che la mia vita era cambiata davvero.
Ricordo la gioia di don Mario nel vedere edificata la “chiesa grande”, nel riuscire a completare il suo sogno di un teatro parrocchiale, nel trovare consolazione nei suoi parrocchiani, vecchi e nuovi, in una Parrocchia che cresceva di numero e di sostanza. Ricordo don Mario, uomo schivo e discreto, ma determinato e senza ripensamenti. Uomo di fede, al quale la mia fede è in debito della sua vita nascente e il mio sacerdozio di un grande amico.