Proteggere un patrimonio dell’umanità. Senza umanità.

Dal 1980 il Centro Storico di Roma è iscritto nella lista dei patrimoni dell’umanità UNESCO.

L’Italia nel suo complesso è attualmente la nazione in testa a tutte le altre per numero di siti riconosciuti patrimonio dell’umanità, seguita a stretto giro dalla Cina. Qui propongo un grafico tratto da Wikipedia.

Nazioni con almeno 10 patrimoni riconosciuti dall’UNESCO. Legenda:

  •      nazioni con 60 o più patrimoni

  •      nazioni da 50 a 59 patrimoni

  •      nazioni da 40 a 49 patrimoni

  •      nazioni da 30 a 39 patrimoni

  •      nazioni da 20 a 29 patrimoni

  •      nazioni da 15 a 19 patrimoni

  •      nazioni da 10 a 14 patrimoni

 

L’iscrizione alla lista è un prestigioso riconoscimento, molto ambito per vari intuibili motivi. I criteri con cui vengono riconosciuti i siti patrimonio dell’umanità sono stati oggetto di revisione nel 2004, ma restano sostanzialmente immutati dal 1972, anno di adozione della Convenzione sul Patrimonio dell’Umanità.

La Convenzione del 1972

La Convenzione del 1972 fu approvata a Parigi nella 17° sessione della Conferenza Generale UNESCO (scarica qui; fonte: UNESCO) ed entrò in vigore nel 1975.

Questo il testo in italiano (fonte: UNESCO):

ConvenzionePatrimonioMondiale1972-ITA

 

Nel 1972 la principale preoccupazione era quella di “garantire l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale” (art. 4), anche grazie al supporto internazionale degli Stati partecipi della Convenzione. Infatti il sito che venisse riconosciuto dall’UNESCO diviene “un patrimonio universale alla cui protezione l’intera comunità internazionale ha il dovere di cooperare” (art. 6).

Ma se un sito non fosse iscritto alla lista dell’UNESCO, cosa succederebbe? Niente. Secondo l’art. 12 “il fatto che un bene del patrimonio culturale e naturale non sia stato iscritto… non significa in alcun modo ch’esso non abbia un valore universale eccezionale a fini diversi da quelli risultanti dall’iscrizione in questi elenchi“. Diciamo che gli Stati aderenti alla Convenzione godono, su loro motivata richiesta, di un’assistenza internazionale speciale, anche in termini economico-finanziari, “in favore di beni del patrimonio culturale o naturale di valore universale eccezionale situati” sul loro territorio (art. 19).

Il primo Stato ad aderire furono gli USA (07/12/1973) seguiti nel 1974 da Egitto (07/02), Iraq (05/03), Bulgaria (07/03), Sudan (06/06), Algeria (24/06), Australia (22/08), Repubblica Democratica del Congo (23/09), Nigeria (23/10), Niger (23/12). L’Italia arriverà con comodo solo il 23/06/1978 (fonte: UNESCO).

La Convenzione non presta nessuna particolare attenzione alle popolazioni implicate nella tutela dei siti. Non era quella la sua preoccupazione principale. Solo di sfuggita nell’art. 5 si parla di “adottare una politica generale intesa ad assegnare una funzione al patrimonio culturale e naturale nella vita collettiva“. Ma l’espressione è ambigua e non se ne può dedurre alcuna specifica indicazione su come gestire la presenza umana nei siti protetti. Anzi è l’integrazione della “protezione di questo patrimonio nei programmi di pianificazione generale” ad essere esplicitamente richiamata.

Tutela del patrimonio o tutela dell’umanità?

La domanda a cui vogliamo rispondere è semplice: la tutela dei siti patrimonio dell’umanità garantisce o no la tutela dell’umanità eventualmente implicata? In altri termini: è possibile che l’estrema tutela dei monumenti, degli agglomerati, dei siti come definiti nell’art. 1 della Convenzione di Parigi del 1972 possa in qualche modo rivelarsi contraria all’umanità?

Si rischia infatti di arrivare al paradosso di proteggere il patrimonio dell’umanità, ma di farlo contro le persone e in definitiva contro la stessa umanità. Proteggere un patrimonio mondiale, espellendo l’umanità, senza umanità.

È lo stesso Preambolo della Convenzione di Parigi a vedere nella “vita sociale ed economica” un potenziale pericolo in quanto “il patrimonio culturale e il patrimonio naturale” sembrerebbero “vieppiù minacciati di distruzione non soltanto dalle cause tradizionali di degradazione” ma anche dalla sua stessa evoluzione che “l’aggrava con fenomeni d’alterazione o distruzione ancora più temibili“.

Nel 1972 il timore che un mondo in rapida crescita fosse troppo distratto al punto di distruggere la sua memoria culturale e storica non era del tutto ingiustificato. Mentre alcune opere d’arte pittoriche e musicali si potevano facilmente proteggere e persino replicare in modo da consegnarle alle generazioni future, l’impresa di conservare monumenti o addirittura intere città appariva allora di estrema urgenza.

Tuttavia negli ultimi 20 anni molti siti di eccezionale valore universale sono stati gravemente danneggiati o distrutti non per i motivi che temeva UNESCO nel 1972 (le cause tradizionali di degradazione) e nemmeno per l’evoluzione della vita sociale ed economica, ma per meri motivi ideologici.

Fonte: Youtube

Nemmeno l’iscrizione al Patrimonio dell’Umanità UNESCO pare abbia riscosso sempre adeguato successo.

Il tempio di Baal-Shamin a Palmira, in Siria, ha cessato di esistere nel 2015 distrutto dai miliziani dello Stato Islamico. Era patrimonio UNESCO dal 1980.

L’iscrizione alla lista del patrimonio dell’umanità UNESCO non garantisce, quindi, che un monumento, un agglomerato, un sito tutelato siano più fortunati di altri se manca il riconoscimento culturale e umano del loro valore da parte di qualcuno.

Anzi, i fatti riportati dimostrano che sono molto più interessati alla tutela del patrimonio “dell’umanità” coloro che in qualche modo hanno storicamente cooperato a realizzarlo e a proteggerlo nel tempo. La distruzione arriva da altrove.

A rigor di logica, quindi, nella misura in cui si tutela l’umanità, cioè le persone che hanno realizzato e protetto il patrimonio e che ad esso sono legate e interessate, tanto più si tutela il patrimonio stesso.

Viceversa, quando le “cose” restano “cose“, senza anima, senza vita, non significative per qualcuno, anzi addirittura “nemiche“, quelle stesse “cose” sono sfruttabili senza rispetto ed eliminabili a piacimento.

UNESCO sembra aver compreso l’importanza dell’educazione alla tutela del patrimonio dell’umanità e favorisce programmi tra le giovani generazioni. I risultati non saranno mai particolarmente esaltanti se di pari passo alla tutela del patrimonio non viene tutelata anche l’umanità.

Sondaggi della Roma cosificata

Roma Capitale non si nasconde la difficoltà di come UNESCO sia percepita in relazione al patrimonio che essa rappresenta. Pochi giorni fa si è concluso un sondaggio del quale, per ora, non si conoscono gli esiti.

Intanto si sa che il progetto di comunicazione grafica (la locandina dell’immagine) è stato realizzato dalla soc. Zétema Progetto Cultura S.r.l. ed è venuto a costare 681,00€.

Il sondaggio fa parte di un progetto che si rivolge ai cittadini di ogni età “per conoscere le tematiche connesse alla specifica identità culturale del sito Unesco“. Anche in questo senso, oltre alle opportunità, si vogliono mettere in luce i “rischi derivanti dalle diverse attività umane che vi si svolgono“. Così la proposta del Sovrintendente capitolino del 14/03/2023 prot. n. 8287.

La condizione socio-economica di Roma è molto mutata rispetto al 1972 e ai princìpi ispiratori della Convenzione di Parigi. Ma è molto mutata anche rispetto al 1980, anno dell’inclusione del suo Centro Storico tra i siti patrimonio dell’umanità. Tre fenomeni si possono apprezzare attualmente soprattutto nel Centro Storico romano:

  • spopolamento dei tradizionali residenti romani, affermazione di nuovi modelli di residenzialità, legati a popolazioni di diversa origine, e passaggio dalle tradizionali attività commerciali ad uno sfruttamento intensivo del turismo di massa ;
  • gentrificazione (cioè borghesizzazione) testimoniata dal passaggio di mano degli immobili da proprietari di medio-bassa capacità economica e reddituale a proprietari di medio-alta capacità economica e reddituale, con conseguente aumento del valore degli immobili stessi;
  • disneyficazione, ovvero la trasformazione del contesto urbano in una sorta di parco giochi a tema storico con relativa spettacolarizzazione del patrimonio culturale.

In pratica assistiamo ad un fenomeno di estrema cosificazione (evito di usare il termine reificazione, che in filosofia potrebbe dare adito a qualche equivoco, pur avendo la medesima funzione semantica) del tessuto urbano, che comporta l’espulsione della realtà umana e sociale che ha contribuito a realizzare e mantenere fino al presente l’opera storica e culturale, a beneficio di una trasmigrazione avventizia che apporta poco o nulla in termini umani e sociali, non contribuisce alla crescita di senso di una civiltà, si limita a emungere qualche soddisfazione fotografica dalla fruizione del patrimonio della Città mentre arricchisce economicamente poche categorie di persone.

Tale processo, non esclusivo di Roma, viene lamentato anche presso altri siti patrimonio dell’umanità UNESCO. Roma, probabilmente a causa della notevole estensione dell’area interessata, colleziona tutta la serie di impatti negativi constatati in altri siti.

Se la responsabilità del processo di cosificazione di Roma appare multifattoriale, nondimeno occorre attribuire ad UNESCO da una parte e ai competenti Uffici italiani (Ministero della Cultura, Soprintendenze statali, Sovrintendenza capitolina) dall’altra il ruolo che essi hanno dimostrato di avere. In particolare non si può tacere che UNESCO non ha saputo dar prova di preoccuparsi dell’umanità almeno allo stesso livello di passione con cui si preoccupa del patrimonio. Ribadisco: un patrimonio dell’umanità senza umanità è perduto in partenza. Non si può inoltre nascondere che gli Uffici italiani si siano dimostrati in non poche occasioni ottusi esecutori di procedimenti amministrativi utili solo a mummificare la realtà e renderla museale, dimenticando che la funzione di una Città è di far vivere i Cittadini, di sviluppare una civiltà, di accogliere le istanze costruttive e innovative provenienti da un mondo che cambia, dall’ospite e dal forestiero.

Se UNESCO e Uffici italiani avessero applicato i loro stessi criteri alla fine del IV secolo dopo Cristo, probabilmente non avremmo mai avuto capolavori cristiani come San Paolo Fuori le Mura (384) e Santa Maria Maggiore (420). La spoliazione degli edifici antico-romani nei secoli successivi non sarebbe avvenuta, ma Bramante non avrebbe fatto il suo tempietto e non sarebbero stati costruiti nemmeno gli edifici di epoca barocca.

Al giorno d’oggi appare non facile bilanciare interessi apparentemente contrapposti: residenzialità e turismo, vivibilità e commercio, tutela di monumenti e di paesaggi e protezione delle persone, sviluppo della civiltà e conservazione della memoria. Se non si comprende che ciascuna di queste attività comporta una precisa visione dell’umanità e del suo ruolo nel mondo, la composizione del conflitto sarà effettivamente impossibile. E l’inazione penalizzerà l’umanità non meno dei fenomeni d’alterazione o distruzione ancora più temibili paventati dalla Convenzione di Parigi.

Convenzione da riformare

La Convenzione del 1972 appare incontestabilmente datata. Il principio ispiratore della tutela internazionale del patrimonio culturale o naturale di valore universale eccezionale è valido, ma non basta introdurre piccole modifiche alla Convenzione per renderlo attuale. Le ragioni che mi spingono a ritenere che occorra una riforma radicale sono presto dette:

  1. UNESCO è molto cresciuta in questi anni e ha ottenuto successi insperati in termini di adesione internazionale e conseguimento di risultati. È divenuta istituzione autorevole e ascoltata. È necessario, a mio avviso, che offra una compiuta e matura riflessione sul suo ruolo relativamente alla protezione dell’umanità il cui patrimonio intende tutelare.
  2. La comunità internazionale che aderisce ad UNESCO esprime una realtà ben più ampia di quella che approvò la Convenzione del 1972, alla quale vanno riconosciuti molti meriti ma anche un limite culturale piuttosto evidente, da alcuni sintetizzato in termini di europacentrismo. Ciò implica che UNESCO debba rielaborare la sua mission non solo in termini internazionali ma anche in termini interculturali, in un’ottica di globale mobilità umana spaziale e temporale.
  3. Se la tutela di un patrimonio viene effettuata senza la partecipazione o addirittura contro di chi ha contribuito a realizzarlo e protetto nel tempo, la conservazione dello stesso per le generazioni future sarà sempre troppo esposta a fragili equilibri del presente e a compromessi economici nel futuro. UNESCO dovrebbe prevedere il potenziamento in tutti i modi delle risorse a beneficio di chi può assicurare la conservazione del patrimonio culturale e storico perché esistenzialmente legato ad esso.
  4. La cosificazione del patrimonio dell’umanità espelle la vita dell’umanità. Non sarà mai un successo degno dell’umanità aver conservato le cose e aver espulso le persone. Nell’orizzonte di UNESCO deve riuscire a prendere posto il senso della civiltà dei popoli, che non sono semplici cose da conservare ma patrimonio complessivo da tramandare, da accrescere, da perfezionare. Poco utile alla civiltà umana sarebbe per le generazioni successive ricevere un patrimonio mummificato e intangible.
  5. UNESCO rimanda alle Autorità degli Stati aderenti alla Convenzione il compito di determinare i modi migliori per tutelare il patrimonio dell’umanità. Tuttavia non sembra avere l’autorità per imporre una visione univoca sia di umanità sia di tutela. Questo rinvio di fatto giustifica arbitrii e ingiustizie commessi dalle Autorità degli Stati aderenti alla Convenzione in nome della Convenzione stessa. UNESCO, per essere pienamente credibile oggi, dovrebbe qualificare le sue capacità di intervento su un modello condiviso e accettato di relazioni internazionali.

Il commento sugli Uffici italiani che si occupano di patrimonio dell’umanità lo rimandiamo ad un altro post.