Scegliere. Prolegomeni di ogni futura bioetica

Su Twitter abbiamo scambiato alcune battute con il mio amico Otherwise riguardo un tema scottante e a questo punto, per continuare, 140 caratteri non bastano più. Le cose sono andate più o meno così.

Il tema principale della bioetica, al quale siamo giunti ricordando il penoso caso di Welby con l’esergo delle sue parole, si pone in tutta la sua complessità quando poi appare il riferimento alla “eutanasia legale”. Di fronte ad essa la rivendicazione della garanzia di una libertà che consenta a ciascuna persona di scegliere in proprio sulle grandi opzioni della vita apre un orizzonte inesplorato e stimolante.

Le domande

Come impostare una corretta riflessione per salvaguardare da una parte il diritto di ogni persona alla propria libera scelta in ogni ambito e dall’altra la giusta preoccupazione della collettività sugli effetti delle azioni dei singoli? In che modo la collettività potrebbe giustificare il ricorso a pratiche e strumenti finalizzati alla morte (pur volontaria) di un singolo membro al punto da renderli “legali” in una sorta di “apoptosi sociale”?

Non ho nessuna pretesa, ovviamente, di scrivere un trattato di bioetica. Ma le parole scambiate su Twitter mi suggeriscono di individuare un preciso ambito che – semmai – possa servire in tempi successivi ad allargare la riflessione. In che modo “scegliere di…” rientra nel tema?

Legalità e moralità

Sappiamo che non tutto ciò che è “legale” è “morale” (e viceversa). Laddove per morale si intendesse anche semplicemente una “morale eudemonistica“, cioè orientata al raggiungimento della felicità come fine naturale della vita dell’uomo, sarebbe ingenuo pensare che bastino leggi statali per assicurarne senza intoppi il funzionamento. Soprattutto sarebbe contraddittorio che si possa chiedere alla collettività di avallare (legalizzare) comportamenti o pratiche che possano in qualche modo danneggiarla (la stessa collettività).

Libertà (tra persona e società)

Perciò la libertà invocata sempre più a gran voce come diritto inalienabile dell’individuo deve misurarsi, che lo voglia o meno, con il fatto che l’individuo non agisce isolatamente, ma è persona, cioè essere capace di relazioni, immerso in relazioni, costituito da relazioni. Ogni danno inferto alla persona è una ferita che attraverso le sue relazioni colpisce l’intera collettività. In questo rapporto biunivoco esistente tra persona e società la libertà occupa un posto di grande rilievo e non può essere considerata al di fuori delle relazioni che le persone intessono tra loro. Altrimenti si giungerebbe a concludere con il paradosso che la persona più libera del mondo è quella che vive su un’isola deserta senza poter comunicare con nessuno.

Cosa (non) posso scegliere

Con queste premesse mi è chiaro che io, in quanto persona singola, non posso “scegliere tutto”. Il contenuto delle mie scelte personali non è arbitrariamente estensibile a tutto il desiderabile. Esiste un limite non solo nella possibilità di scelta (ammetto di non essere onnipotente) ma anche riguardo agli oggetti della scelta, e non solo a causa della loro manifesta irrazionalità. Semplicemente perché la mia scelta personale dovrà confrontarsi, necessariamente, con la scelta personale e collettiva di altre persone.

Ma cosa accade se la scelta, invece che vertere sul colore o la foggia dei vestiti da indossare quel giorno, riguarda un oggetto delicato e tanto irriducibile come la “mia” esistenza? Esistono di sicuro ambiti nei quali nessuno, fuorché la persona interessata, ha il diritto di intervenire: penso per esempio al matrimonio, o alla vocazione religiosa, o anche all’inclinazione allo studio e alla professione. Sono note le storture umane che si creano in quelle nazioni dove la volontà dello Stato piega la libertà del singolo nelle sue scelte esistenziali.

Terminare la vita

Si arriva però in tempi recenti a invocare il diritto di scegliere l’esistenza in se stessa, in altre parole a determinare la fine della propria vita. “Terminare la vita” da espressione passiva-descrittiva si trasforma in espressione attiva-operativa. Qui si aprono scenari interessanti. E nascono nuove domande.

In una scelta del genere può prevalere il giudizio su cosa è vita o cosa non è vita, fondandolo su criteri estetici o funzionali? La sofferenza e il suo rifiuto possono diventare elementi discriminanti per decidere di porre termine alla propria esistenza? La collettività, alla quale ciascuna persona è legata a filo doppio, ha il diritto di legiferare in proposito? Pur avendo a volte il dovere di esprimersi intorno a temi “etici” generali, la società, uno Stato, è in grado di fare valutazioni legittime su argomenti relativi alla vita personale? Può in altri termini riconoscere in via ultimativa che la libertà personale si spinge fino a consentire la propria graduale dissoluzione come collettività attraverso la soppressione del singolo?

Domande che richiedono una risposta. Non tutte qui.

Casi limite

L’esistenza di casi limite è pacificamente riconosciuta da tutti. Nel parlare di “accanimento terapeutico” già si delimita un campo ben preciso, dal quale unanimemente si auspica doversi sempre tenere distanti. Ma se alcuni decenni fa poteva sembrare accanimento terapeutico anche la semplice somministrazione di antibiotici, oggi che questi si consumano come acqua fresca qualcuno si domanda se non siamo di fronte ad accanimento quando un paziente viene trattato con agenti genotossici per combattere il cancro.

I casi limite esistono ed esisteranno sempre. Quel che possiamo constatare negli ultimi anni è che l’estremo sviluppo delle scienze e quindi della conoscenza e della tecnica sta in qualche modo favorendo la generalizzazione e la diffusione dei casi limite, quasi come se l’intervento dell’uomo invece di ridurne numero e frequenza e di semplificare il problema stia invece contribuendo ad aumentarne la complessità di fronte alla quale l’uomo stesso si avverte sempre meno capace di risposte, o sempre alla ricerca di nuove risposte (che è la stessa cosa).

Le risposte umane ai casi umani

Fondamentalmente io credo che a casi umani vadano date risposte umane, non risposte tecnico-legali. L’aggettivo umano, in questo senso, è relativo sia al fatto della comune appartenenza a quel genere animale, sia ad un atteggiamento profondo che manifesta “umanità” nel contatto con le persone. Soprattutto con quelle che sperimentano drammi e sofferenze non facilmente collocabili all’interno di un modello esistenziale condiviso. So che la soluzione più facile appare spesso in forma distruttiva. Ma è la soluzione più umana?

Nessuno si nasconde che la disperazione, il dolore, lo stordimento per la perdita di qualcosa di importante siano tragedie intime di indicibile sofferenza. Di fronte ad essa le reazioni sono le più varie, a volte irrazionali e irragionevoli, a volte cariche di commovente densa umanità. Quando si apre questo ventaglio non c’è spazio per giudizi (“Chi sono io per giudicare?”).

Nondimeno non penso che legittimare socialmente  la “scelta” di terminare la vita (ancorché liberamente – e bisognerebbe dimostrare quanto – ed evidentemente la propria) e da parte di uno Stato renderla “legale” rappresenti una risposta umana in senso pieno ai casi umani. Il mio pregiudizio è incline a ritenere che per una società e uno Stato si tratti – in definitiva – del modo più rapido di “eliminare il problema”. Da una ragionevole analisi – fondata anche su esperienze analoghe – si possono prevedere scenari tanto paradossali (è più conveniente economicamente per lo Stato curare un malato di cancro o spingerlo a chiedere l’eutanasia?) o di tale gravità (si pensi al suicidio assistito di Pietro D’Amico) che almeno le persone dotate di sufficiente buonsenso dovrebbero invocare un “supplemento di istruttoria” per valutare se e quanto sia conveniente introdurre sistemi legali che possono sfuggire di mano.