Tra convegnismo e pragmatismo: visioni di Chiesa
L’ascolto prima e la lettura poi della relazione del Cardinal Vallini, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma e Ostia, a conclusione dei lavori del Convegno Diocesano 2014 dal titolo “Un popolo che genera i suoi figli – Comunità e famiglia nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana” suggerisce qualche riflessione.
Una Relazione senza Libro del Sinodo
Anzitutto salta agli occhi che nella Relazione non vi è nemmeno una citazione o un banale riferimento al Libro del Sinodo. Nei primi anni ’90 la Chiesa di Roma fu impegnata in un poderoso sforzo collettivo per riflettere sulla propria prassi pastorale, individuare criticità, darsi obiettivi pastorali.
All’interno di questo enorme lavoro, che ha visto per mesi sfacchinare con entusiasmo fianco a fianco laici, religiosi, religiose, sacerdoti, occupava un posto importante l’eleborazione di linee guida che non hanno trascurato l’aspetto catechetico ed evangelizzante della comunità. Nella seconda parte del Libro (“Le vie della nuova evangelizzazione“) il secondo capitolo è dedicato proprio a “Evangelizzazione e Catechesi” (pp. 105-147). La parte terza individua tra “Gli ambiti privilegiati” di azione pastorale “La famiglia” (capitolo I, pp. 243-271) e “I giovani” (capitolo II, pp. 274-302). Superfluo aggiungere che molti dei temi toccati dal Cardinal Vallini erano già stati in qualche modo trattati 20 anni fa.
Questioni pratiche già risolte: ma pare nessuno lo sappia
Cito, solo per dare un’idea di quello che affermo, le due questioni “annose” che sembrano affliggere la Diocesi di Roma, tanto che su di loro si sono concentrate nel tempo parecchie polemiche: quella dell‘età giusta per celebrare il sacramento della cresima e quella del ruolo delle scuole cattoliche nella catechesi, nella preparazione e nella celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Nella sua Relazione il Cardinale tratta il tema sotto il titolo di “Questioni pratiche” e a pagina 18 dice:
Rimangono da trattare alcune questioni pratiche. Ne tocco soltanto due: la prima è l’età della Cresima. Al riguardo c’è molta varietà in diocesi. C’è chi desidera una regola unica che uniformi gradualmente tutte le prassi, e c’è chi dice di lasciare le cose come meglio si ritiene. Personalmente non mi pare saggio stabilire di autorità un criterio che debba essere seguito da tutti. Preferisco portare la questione al Consiglio dei Prefetti, che dopo aver ascoltato e discusso con i parroci delle Prefetture, suggeriscano le proposte ritenute più opportune e poi decideremo il da farsi.
La seconda questione riguarda le scuole cattoliche che preparano ai sacramenti i loro alunni. Si tratta talvolta di tradizioni molto consolidate che non è facile mutare senza creare malumori infruttuosi. Il vero punto problematico è che finita la scuola, i ragazzi che non hanno stabilito alcun legame con la parrocchia, non frequentano più. Anche su questo punto vorrei approfondire il problema in Consiglio dei Perfetti, ascoltando anche i Responsabili delle scuole cattoliche e poi dare gli orientamenti necessari.
Di entrambi gli argomenti si era diffusamente occupato il Sinodo del 1993. Riguardo all’età della Cresima si era pronunciato in questi termini (Indicazione Pastorale 13,2):
La Chiesa di Roma stabilisce che:
– ogni comunità parrocchiale attivi un itinerario continuato di catechesi permanente dai 6/7 ai 14 anni, con un più intenso periodo di iniziazione catechistica, liturgica ed ecclesiale, di durata almeno biennale, che preceda sia la celebrazione della Messa di prima comunione, da collocarsi non oltre i 10 anni, sia quella della cresima, da collocarsi di norma tra i 12/14 anni.
Anche in relazione alla preparazione dei sacramenti nelle scuole cattoliche si era pronunciato il Sinodo del 1993. Sempre nell’Indicazione Pastorale 13,2 leggiamo:
La Chiesa di Roma stabilisce che:
– le scuole cattoliche e i centri educativi autorizzati dalla Diocesi assicurino la partecipazione dei fanciulli e ragazzi agli itinerari di catechesi e di iniziazione sacramentale prediposti dalle comunità parrocchiali, salvo i casi dove esistano oggettive condizioni di supplenza e particolari situazioni riconosciute e approvate dal Vescovo Ausiliare; in tali circostanze la preparazione avvenga fuori dell’orario scolastico e mantenga uno stretto raccordo con le parrocchie dei ragazzi; siano comunque osservate le disposizioni precedenti.
In entrambi i casi colpisce l’espressione forte usata (“La Chiesa di Roma stabilisce“) la quale non lascia adito a dubbi: si tratta di una norma che deve essere rispettata. Quindi l’età della cresima può avere oscillazioni minime “tra i 12/14 anni” e le scuole cattoliche devono lasciare che gli alunni frequentino la catechesi parrocchiale e in Parrocchia celebrino i sacramenti, a meno di non dover esercitare funzioni di supplenza certificate del Vescovo Ausiliare.
Non pare, quindi, che siano mancate nella Diocesi di Roma le indicazioni pastorali, tanto da dover chiedere il parere del Consiglio dei Prefetti (cfr Costituzione Apostolica Ecclesia in Urbe, art. 20): esse sono presenti, anzi, in modo solenne da 20 anni. E sembra strano non tanto e non solo che dal 1993 se ne sia persa memoria, quanto che, come molte altre, siano rimaste inapplicate.
Cosa manca? Il metodo
Mi sono posto una domanda: cosa manca al processo pastorale della Chiesa di Roma? E mi sono dato una risposta, forse sbagliata, mi piacerebbe sentire altre campane: manca il metodo.
So bene, come lo sanno tutti coloro che si occupano di “pastorale”, che la pastorale non si fa per decreto. La pastorale è affare di testa, di cuore, di rapporti umani, di energie spese quotidianamente per far passare il messaggio di redenzione di Cristo attravero la propria vita (pensiero e azione insieme).
Nondimeno si può praticare un metodo che unifichi gli sforzi di bene di una grande Chiesa come quella di Roma, capo e madre di tutte le Chiese.
Se dovessi sintetizzare con qualche parola un metodo efficace direi che esso segue cinque punti:
- obiettivi condivisi;
- progetto operativo;
- tempo di esecuzione:
- verifica e revisione dei risultati;
- sostegno del sistema alle aree più deboli e critiche.
Si possono avere obiettivi condivisi, ma se non segue un progetto operativo da sviluppare in un tempo determinato al termine del quale si possano verificare i risultati, sostenendo centralmente le comunità periferiche che da sole non ce la fanno a rispettarlo, tutto resta fumoso e aleatorio.
Occorre ovviamente che vi siano anche responsabili capaci di indirizzare con decisione e di chiedere a ciascuna realtà una conseguente assunzione di responsabilità delle proprie azioni o delle proprie omissioni. Si tratta di una Chiesa che cammina insieme, non di qualche singolo creativo che si è ricavato una nicchia ermeneutica e pratica dove agire di testa propria.
Discernere i tempi
Gesù pronunzia parole brucianti rivolgendosi alle folle: “Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Lc 12,56). Nel “discernimento dei tempi” bisogna considerare anche il modello di Chiesa che si vuole proporre alla generazione del XXI secolo.
Il modello convegnista che vede la Chiesa impegnata in discussioni spesso infruttuose su questioni spesso marginali sembra aver fatto il suo tempo. Se dal modello convegnista non deriva una ortoprassi e una “soluzione dei problemi” la Chiesa si isterilisce e si ripiega su se stessa.
Il modello pragmatista affascina senza dubbio. A volte pare però che pecchi di “delirio di onnipotenza” quasi come se la Chiesa possa avere o trovare una soluzione ad ogni problema si presenti in una società in rapidissima evoluzione. Se il modello pragmatista non viene animato da una solida fede che spera e ama, la Chiesa si trasforma in un’agenzia di servizi.
Così vedo difficile che – senza una memoria feconda, senza un vero progetto da verificare nel tempo, senza apporto critico della base, senza assunzione di responsabilità dei vertici, senza visione di una Chiesa che discerne in dialogo con la contemporaneità – tra 20 anni la Relazione del Cardnal Vallini abbia un destino migliore del Secondo Sinodo di Roma.
Sull’attuale sinodo sulla famiglia nutro grandi speranze di apertura e di rinnovamento, perché ora c’è papa Francesco che con la sua umile e coerente sincerità a mio avviso sta avviando una rivoluzione vera all’interno della Chiesa. Il sinodo del 1993 era per la chiesa di vent’anni fa. Ora viviamo questo sinodo che è per la chiesa di oggi.
I due Sinodi differiscono e non poco e non solo per la collocazione temporale. Quello del ’93 era il Secondo Sinodo Romano, quindi riguardava la sola Diocesi di Roma. Questo del 2014 è un Sinodo dei Vescovi, peraltro straordinario, in quanto periodicamente i Vescovi della Chiesa Cattolica convocati dal Papa si incontrano per dibattere argomenti “caldi” della vita della Chiesa intera.
Ciò di cui mi rammarico nel mio post è la facilità con la quale dal ’93 è stato archiviato un lavoro sinodale durato anni, che aveva aperto grandi speranze nella Chiesa di Roma. La sua mancata applicazione, il mancato doveroso passaggio prima nella coscienza dei credenti, pastori in primis, poi nella prassi pastorale fa riemergere puntualmente piccole o grandi questioni legate alla vita stessa delle nostre comunità. Proprio oggi Papa Francesco ha detto che “se la Chiesa si ferma e si chiude si ammala” ( http://www.news.va/it/news/se-la-chiesa-si-ferma-si-ammala-papa-francesco-ric ): non posso che confermare queste parole ed osservare che il contagio non ha risparmiato la Chiesa di Roma, ferma e chiusa a prima, molto prima del 1993.
Se questo è un trend ecclesiale, anche il Sinodo dei Vescovi 2014 rischia di fare la stessa fine.