Trent’anni di fraternità (e di sororità)
Ultimo aggiornamento: 24/04/2021 09:06
Il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine.
(Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine)
I nostri genitori mi hanno donato una sorella e due fratelli, che a loro volta mi hanno donato tredici nipoti, che a loro volta mi hanno donato due pronipoti. E un altro in arrivo (a dire il vero non so bene se sia maschietto o femminuccia).
Una famiglia numerosa e articolata non è garanzia di esperienza di fraternità, per quanto ne faciliti molto la comprensione. Per esempio, Armando Matteo (di recente promosso sotto-segretario della Congregazione della Dottrina della Fede) ha fatto un lungo intervento da professore dell’Urbaniana per parlare di fraternità avendo avuto due grandi intuizioni e per spiegare perché la fraternità sia in crisi e perché filosofie ed ideologie abbiano seppellito la fraternità, eccetera eccetera eccetera (link • mirror pdf). Certamente l’accademico sotto-segretario è più titolato di me nel concludere che “la fraternità è qualcosa che parte dallo Spirito, che parte dall’altro, dall’esperienza della preghiera. Riscoprire la fraternità, diventare tessitori di fraternità significa diventare annunciatori della paternità divina“. Lascio sia lui a compiere riflessioni tanto elevate. Io, più sommessamente, posso parlare di alcune “esperienze di fraternità” nel corso dei 30 anni in cui sono prete.
La famiglia di origine mi ha insegnato che sororità e fraternità sono possibili dove ti senti e sei a casa (fatto salvo il doveroso rispetto dell’altrui intimità). Non valgono distanze e nemmeno la frequenza delle occasioni. Se vengono a trovarmi sorella, fratelli, nipoti sono a casa loro. Se vado io a trovare loro sono a casa mia. L’essere a casa e di casa porta inevitabilmente con sé un senso spontaneo e naturale di condivisione. Da ragazzi tra fratelli si usava il medesimo cassetto delle mutande e non era inusuale indossare capi di abbigliamento gli uni degli altri. Da adulti non ci siamo fatti problemi ad aiutarci nei momenti di difficoltà, è il minimo che si possa fare tra sorelle e fratelli, senza esitazioni.
In questo modo di praticare la fraternità (ad eccezione delle mutande, beninteso!) ho ritrovato molto dello stile delle Suore Figlie della Chiesa, che conosco almeno dal 1986 e che sanno essere vere sorelle: lo ricordavo nel discorso in occasione del venticinquesimo anniversario della mia ordinazione, rammaricandomi che nella lingua italiana non esista il termine sorellità*. Ho trovato le Figlie della Chiesa vicine sempre, dall’India dove mi hanno ospitato facendomi sentire ed essere a casa, alle numerose occasioni di preghiera e di predicazione che mi hanno offerto; e vicine pure nel momento del bisogno, disposte all’aiuto materiale senza condizioni. Mi torna alla mente spontaneo il confronto con un certo confratello che percepisce due pensioni, per il servizio che svolge riceve tuttora un mensile sotto forma di offerta esentasse, ha casa ereditata e 500.000 euro in banca (informazioni che dissemina lui con una certa disinvolta generosità), eppure quando gli ho chiesto un prestito per una opera buona (non per me e con promessa di restituzione in pochi giorni) ha protestato la propria impossibilità. Che Dio gliel’accresca, ma dire con-fratello è esagerato, in questi casi il termine esatto è “collega”.
Non ero ancora suo confratello, ma ricordo sempre con grande nostalgia il mio primo padre spirituale, un Figlio dell’Amore Misericordioso escardinato dalla Diocesi di Roma (diceva che Madre Speranza e la Congregazione l’avevano salvato… eh, quanta verità, che allora non potevo capire!). Da seminarista mi allungava sempre i soldi per andarlo a trovare a Perugia. Dove mi faceva sentire ed essere a casa. La fraternità per lui (e per il generoso amico don Geremia) non era tanto cosa da spiegare, la si respirava tra le mura dell’Istituto che dirigeva, nelle attenzioni che metteva per soddisfare i bisogni di tutti, nelle piccole e nelle grandi faccende quotidiane, dalla pulizia dei bagni alla preghiera in comune. Quegli anni per me sono stati scuola di fraternità.
Anche una Diocesi potrebbe essere scuola di fraternità, per laici e religiosi ma soprattutto per preti. Ovviamente sempre tenendo presente che “diocesi” identifica l’ente amministrativo di una Chiesa particolare, è un servizio ad essa, la rappresenta legalmente, però è superata dalla stessa Chiesa particolare che ha tutto il diritto di distinguersene. Ne ho avuto conferma in varie circostanze. Per esempio, quando la Diocesi ha pasticciato tra un incarico fittizio e i versamenti dei contributi sono diventato evasore fiscale (ebbene sì, a mia insaputa ho evaso il fisco per una decina d’anni, ma ormai è tutto prescritto). E quando me ne sono accorto, i colleghi dei competenti uffici ecclesiastici hanno cercato di convincere il CAF che mi assisteva a non fare il “ravvedimento operoso” che da cittadino coscienzioso mi sembrava giusto fare almeno per gli anni non prescritti. Non so se mia sorella e i miei fratelli sarebbero stati capaci di farmi diventare evasore fiscale, so di sicuro che non mi hanno mai suggerito di non ottemperare alle leggi dello Stato. E mai mi avrebbero tenuto senza stipendio per sei mesi, pretendendo la restituzione di soldi che non avevo ricevuto.
Per fortuna esiste la Chiesa, che – ripeto – non è sovrapponibile alla Diocesi, ed è lei la vera tessitrice di fraternità. Come si dice? “Calunniato mezzo impiccato“. Può capitare che ad una metà dell’impiccagione concorrano i colleghi. E all’altra metà? Quando gli amministratori della Diocesi hanno deciso che per motivi di opportunità (sua e loro) io non fossi più presentabile completando così l’impiccagione, sono stati i malati di mente ad accogliermi come fratelli e a dare spessore e dignità alla mia povera umanità (fragile come quella di tutti) e al mio ministero sacerdotale. Posso testimoniare che la loro fraternità è tangibile tutti i giorni, anche più volte al giorno, se si considerano telefonate ed sms che ricevo, a volte solo per dirmi che nel mio giorno libero manco dalla Struttura. Non racconterò mai loro che in 30 anni da prete i Vicari Generali susseguitisi (quattro cardinali, senza contare la girandola dei vescovi ausiliari) mi hanno chiamato al telefono una volta in tutto (Vallini, in occasione di un incidente) e che negli ultimi quattro anni qualcuno mi ha dato persino per morto. Il fatto è che la Diocesi amministra centinaia, migliaia di preti, realisticamente non si può essere fratello di centinaia, di migliaia di sconosciuti con la stessa intensità di rapporto. È umano sviluppare più interesse per chi ti ronza attorno e puoi giostrare. Soprattutto i più hanno imparato che io ho un rapporto molto conflittuale con il telefono.
Certo, dispiace un po’ che l’Ente amministrativo della Chiesa particolare abbia considerato tanto irrilevanti i malati di mente da poter spedire tra loro un prete solo perché diventato impresentabile e non invece uno più preparato e capace di cui non vergognarsi. E un po’ duole che lo stesso Ente sia restato sordo ai suoi appelli (verbali e scritti) per proporre un diverso approccio pastorale rispetto alla salute mentale. Alla fine la Provvidenza ha disposto che chi ci guadagnasse di più fossi io, e questo mi fa provare un po’ di sensi di colpa. Cerco di rimediare come posso, anche perché nessuno meglio di uno scartato ed escluso può capire gli scartati e gli esclusi.
Per fortuna la Chiesa non è refrattaria agli appelli dello Spirito e la fraternità verso i malati di mente dimostrata dagli amici e dalle amiche della Comunità di Sant’Egidio si è fatta tangibile, da una Messa ad una uscita, dalla ricerca di un alloggio ad un pranzo natalizio, solo per citare qualche iniziativa. Persino le scuole pubbliche, distintamente il Liceo Talete, non hanno fatto mancare in più occasioni l’allegra e servizievole presenza di alunne e alunni, sororità e fraternità in crescita. E come dimenticare il mitico concerto dei mitici BluesBros, altri fratelli dei più deboli ed esclusi?
Per fortuna esiste la Chiesa! La quale non solo annovera tra i suoi figli i battezzati praticanti, ma anche quanti hanno a cuore le necessità altrui e hanno la sensibilità di provvedervi con discrezione. Quando per diversi anni ho vissuto in casa perché per me non si trovava una collocazione in Diocesi, sono stati i Dirigenti della Struttura dove opero a preoccuparsi di procurarmi un alloggio. In questo devo dire che la fraternità dei proprietari e del personale si è dimostrata esemplare.
Parafrasando il discorso di Kennedy nel giorno del suo insediamento, è ora che io mi dica a proposito della fraternità: “non chiederti cosa può fare la tua Chiesa per te, chiediti cosa puoi fare tu per la tua Chiesa“. Ricordo che fin dai tempi della mia ordinazione diaconale (20.10.1990) dichiaravo in una intervista al periodico parrocchiale di avere un obiettivo ambizioso: portare Dio ai fratelli e i fratelli a Dio. Del resto – aggiungevo – «diacono» vuol dire servitore ed io intendo servire i fratelli in Cristo (Santa Paola Idee Notizie, n. 1 – 2.12.1990, p. 2) . Obiettivo forse troppo ambizioso, considerata la mediocrità della mia persona e il senno del poi. Oggi alle domande di una ipotetica intervista risponderei che non ho soldi né potere, non apparenza né considerazione e pure la salute non è tra le migliori e quindi per la Chiesa posso fare poco: posso tutt’al più essere presente e servizievole, generoso e orante, incoraggiante e leale, far sentire a casa propria e far essere a casa propria nella Chiesa gli scartati e gli esclusi. Ma quel poco lo faccio volentieri, perché mi sembra siano questi i tratti caratteristici di una fraternità né melensa né idealizzata, che sarebbe buona solo a nutrire il narcisismo istituzionale dei sussidi e dei progetti.
In prossimità del trentesimo anniversario del mio sacerdozio (11 maggio 2021) accompagno questa riflessione con il ringraziamento alla sororità e alla fraternità della mia famiglia di origine, alla sororità delle Figlie della Chiesa, alla sororità e alla fraternità dei malati di mente e del personale della Struttura dove opero, alla sororità e alla fraternità delle persone che lungo questo tempo mi hanno fatto sentire ed essere a casa: tutti mi hanno insegnato qualcosa, certamente ad amare e a servire la Chiesa – casa di tutti gli esseri umani – da fratello.
Per il futuro spero di non perdere lo stile leale avuto fino ad ora. Di carattere non sono fedele.
Le persone fedeli sono come quei coniugi che per timore di tradire arrivano a negare persino a se stessi di essersi innamorati di una persona diversa dal proprio partner. Assomigliano a Pietro che promette e spergiura.
Mentre i preti sono come le maestre e le puttane: “si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire” (Lorenzo Milani).
Le persone leali me le rappresento più come Tommaso, che non vuol tradire quel Gesù che ha conosciuto prima della risurrezione e per questo non esprime la sua fede nel Risorto se non quando ne può essere certo.
Poco importa se questa lealtà venga scambiata da qualcuno per polemica, al massimo può considerarsi incredulità. Il Signore mi conservi anche nel decadimento cognitivo della senescenza l’onestà intellettuale di saper tornare sui miei passi, come Tommaso. Non senza prima aver accolto con mente critica quanto la Chiesa propone per la sua missione terrena. Ma non desidero rinunciare alla franchezza libera e liberante della leale fraternità che ho imparato a praticare. Né ora né nei prossimi trent’anni di sororità e fraternità. O in cento di solitudine.
* Aggiornamento: dopo aver letto qualche commento su Twitter a questo mio post, ho deciso che il termine sorellità, che ho utilizzato in precedenza, può essere sostituito dal migliore sororità, il quale trae ispirazione dall’aggettivo sororale che esiste, per quanto poco utilizzato. Ne mantengo solo uno, citazione di altro mio post.
I gatti delle foto, Samantha e Samy, sono i due felini con i quali condivido la sororità e la fraternità del creato.
A tua insaputa?
Ti chiami Quinzi o Scajola?
:-P
Semplifico: se tu apri una posizione lavorativa a mio nome e versi i relativi contributi senza dirmelo (e soprattutto senza che io percepisca nulla da te), mentre mi fai svolgere un incarico completamente differente dove un altro soggetto ha aperto una posizione lavorativa a mio nome e versa i contributi comunicandomi regolarmente l’IRPEF da dichiarare e soprattutto mi paga, io come faccio a sapere dell’esistenza di altri redditi?
Robe da matti, credimi! Poi rivolevano indietro i soldi che NON avevo percepito! Non riuscivo a capacitarmi…