Un contributo alla memoria della Diocesi di Roma

Se il programma della Pastorale della Salute della Diocesi di Roma spinge a riconoscere le “cose prodigiose” delle quali siamo testimoni oggi, nondimeno il fare memoria – previsto dal programma diocesano – spinge a riconoscere che altrettante “cose prodigiose” sono accadute in passato.

Provo a dare un contributo alla memoria della Diocesi di Roma ricordando l’epoca, il pensiero e l’opera di don Roberto Sardelli (wikipedia), ormai presente in una sterminata bibliografia, celebrato anche in un documentario (Non Tacere, di Fabio Grimaldi, produzione Blue Film ), raccolto online da vari siti web, tra i quali il più documentato sembra essere www.movio.beniculturali.it (la ricca sezione “il cantiere della memoria“).

Don Sardelli balzò agli onori della cronaca perché nel 1968 acquistò una baracca (la baracca 725) da una prostituta tra i baraccati dell’Acquedotto Felice e fondò una scuola, non troppo diversa da quella di don Milani, che si denominò per questo Scuola 725. Con i suoi alunni, che nella scuola statale “Salvo D’Acquisto” venivano spesso messi nelle classi differenziali (fonte), scrisse la Lettera al Sindaco (pdf) riprodotta in questo post e pubblicata allora sul quotidiano Paese Sera. Con gli stessi alunni, un po’ più cresciuti, nel 2007 don Sardelli scrisse una nuova lettera stavolta al Sindaco Veltroni Per continuare a Non Tacere, contributo per un rinnovato governo della città (pdf).

Come prevedibile, le reazioni all’opera di don Sardelli non si fecero attendere (pdf). Allora venne tacciato di essere un “agitatore sociale“, agitatore a senso unico “che approfitta dell’ignoranza e della tenera età di chi l’ascolta“. Il Parroco di allora, Mons. Sisto Gualtieri, gli diede il benservito e don Sardelli si trovò senza una Parrocchia in cui predicare. Ai giorni nostri, alla tenera età di 83 anni, a don Sardelli è stata conferita la laurea honoris causa dall’Università Roma Tre (fonte).

La lettera che pubblico testimonia la passione e la lucidità in tema di antropologia, di politica e di rapporto con la religione; con la tara degli anni, di un linguaggio e di una mentalità tipiche degli anni ’60 come pure delle mutate condizioni socio-economiche mostra tuttavia l’attualità dei temi che affronta: la povertà, l’accoglienza del diverso, la scuola, la visione delle relazioni umane, la civiltà politica, la fede trasformante, il difficile rapporto con le istituzioni sia civili che ecclesiastiche.

Soprattutto dimostra che perdere la memoria condanna a ripetere errori e – per i cristiani – a perdersi nella mondanità, qualcosa di peggio del modernismo e del tradizionalismo, i poli opposti di un modello di chiesa inutile a se stessa e agli altri.

Confrontandosi con don Sardelli, pioniere o profeta, come si preferisce, la Diocesi di Roma si può arricchire di una interpretazione del presente nella quale coniugare la lettura politica, quella evangelica e quella pastorale con la ricerca che il Servizio diocesano per la formazione permanente del clero sta conducendo rispetto all’identità e alla missione del presbitero diocesano e al rinnovamento della pastorale stessa (qui).

scuola 725: lettera al sindaco

Noi mandiamo questa lettera al Sindaco perché è il capo della città.

Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia dei suoi cittadini vivono nei ghetti. Per scriverla ci abbiamo impie­gato dieci mesi.

Ogni sera a pensierino si aggiungeva pensierino, si correggevano e si batte­vano a macchina; c’era lavoro per tutti.

Nella lettera abbiamo voluto dire una sola idea:

La politica deve essere fatta dal popolo

Al Sindaco di Roma
Al Ministro dei LL.PP. – Roma
Al Presidente della Provincia – Roma

e p. c.:

Al Presidente della Repubblica Italiana
Al Presidente del Senato
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Presidente della Camera dei Deputati
Al Santo Padre Paolo VI
Al Cardinale Angelo Dell’Acqua, Vicario del
Santo Padre per la città di Roma

1

Sindaco,

«E-grège» vuoi dire fuori dal popolo. Se noi avessimo cominciato in un modo del genere la lettera l’avremmo posta al di sopra di noi, invece lei è come noi.
Ciò le fa onore.

2

E neppure « signore» l’abbiamo voluta chiamare. Il Signore è uno ed è morto in croce e certo lei non ci muore. Par­liamo della croce dello sfruttamento: questa è già occupata da noi.

3

C’è rimasta la parola «sindaco». Abbiamo visto sul vocabolario che essa significa difensore del diritto. Di quale diritto?

4

Di quello dei ricchi o dei poveri? Senz’al­tro lei dovrebbe essere dalla parte dei poveri. Questa è giustizia. E per due ragioni:

5

I poveri sono da tutti dimenticati e non sanno come difendersi.

6

Lei crede di avere la coscienza tranquilla quando ha trattato tutti allo stesso modo. Invece ciò per noi è ingiustizia.

7

Se ci sono due uomini, uno zoppo e l’altro sano, se il primo viene offeso, dobbiamo metterci dalla sua parte e non fare i neutrali.

8

Lei qui all’Acquedotto non s’è mai vista. Ed ogni giorno che passa, qui si costruisce un ghetto. Lei sicuramente conoscerà il significato della parola, solo perché l’avrà letto sul vocabolario. Noi lo sappiamo perché ci viviamo da quando siamo nati.

9

Solo chi vive ha il diritto di parlare. Chi legge, saprà le cose a memoria, ma è bene che stia zitto e si metta dietro a noi.

10

La scuola del mattino ci dimentica. Esistono solo i «signorini» dei palazzi. Infatti i suoi programmi sono fatti dai loro papà per essi. Non per noi.

E riescono anche ad influenzarci.

11

Un nostro amico abitava da 12 anni all’Acquedotto; ha cambiato casa ed ora ride di noi perché abitiamo nelle baracche.

Quando andiamo alla scuola di stato gli insegnanti non pensano a noi, ma a quelli che hanno una casa.

12

La maestra di Marta l’anno scorso era arrivata quasi alla fine del libro, ma Marta non sapeva ancora leggere la pri­ma pagina.

Sabatino faceva la 2a elementare e non sapeva leggere né scrivere. Il maestro voleva mandarlo in una classe differen­ziale come ritardato.

Da noi ha preso coraggio, è stato pro­mosso e ci aiuta a fare il giornale.

13

Gli insegnanti non sanno cosa significa studiare in una baracca, in una “came­retta” dove c’è cucina, letto e gabinetto, la mamma e i fratellini mai quieti e innervositi.

I nostri genitori talvolta sono analfabe­ti. Qualche papà per pensare ad altro si ubriaca. È la malattia dei poveri.

Purtroppo alcuni baraccati accettano questa offesa alla loro intelligenza.

14

La scuola potrebbe svegliarci.

Ma essa è nelle mani dei signori.

La riforma di questa scuola dovrebbero farla gli operai e i contadini, invece la fanno gli avvocati e i professori. Le per­sone più contrarie alla classe operaia.

15

Voglion parlare a nome dei poveri, ma non vogliono insegnare loro a farlo da soli.

Hanno paura. Crollerebbe tutto il loro modo di vivere. E poi accettare i poveri come maestri non è facile per i superbi. Il preside del «Plinio Seniore», detto il «barbiere», ha definito bene la scuola di stato: «Essa prima di tutto educa all’esteriorità».

16

Codesta è una scuola che appoggia i ricchi.

Vi impariamo ad imitare i borghesi.

Eppure noi con loro non abbiamo nulla a che fare.

Noi oppressi, loro oppressori. E andiamo alla loro scuola.

17

Una maestra fanatica di canzonissima ha dato questo tema: scrivi la canzone che preferisci e che ti piace di più.

Un’altra voleva addirittura che si facesse l’analisi grammaticale di una di que­ste canzonette.

Noi l’abbiamo fatta, ma sulla canzone dei guerriglieri colombiani.

Mica hanno dato un tema sull’uccisione dei due operai ad Avola o delle perso­ne uccise a Battipaglia.

Due maestri che hanno provato, sono stati cacciati dalla scuola.

18

A Carla la maestra ha dato uno di quei temi che spesso ci assegnano: descrivi il palazzo dove abiti.

Carla non sapeva cosa inventare perché aveva vergogna, come molti di noi, di dire che abitava nelle baracche. Ma la vergogna non è nostra.

Don Roberto la costrinse a dire la verità.

Una delle regole della nostra scuola, infatti, è di non dire e non fare cose inutili.

19

La nostra scuola è in una baracca. Tra noi c’è sempre il prete, e dei giovani che a sera hanno la gioia di ritornare in una casa.

A noi questa gioia non è data.

Prima i giovani erano molti: venivano soltanto per aiutarci a fare i compiti. Venivano vestiti alla moda.

Cercavano di influenzarci.

Ragazze truccate in viso e ragazzi che parlavano troppo: credevano di essere rivoluzionari.

Avevano letto solo i libri. Alcuni si dicevano maoisti… perché Mao era assente…

Parlavano la lingua dei ricchi e non quella nostra. Poi si sono stancati e ci hanno
lasciato. Hanno fatto bene. Non si sa mai: chi va con lo zoppo impara a zoppicare! ed erano zoppi.

20

Difatti alcuni di loro fanno ripetizioni ai figli dei borghesi.

Avrebbero una sola via di uscita: lascia­re gli studi e mettersi al servizio della classe operaia.

21

La nostra scuola mira ad una prepara­zione politica e a farci conoscere la si­tuazione in cui dobbiamo vivere. Non accettiamo nessun ragazzo che abita nei palazzi. Ne avevamo accettato uno, ma è andato via. Non ci ha capito. Era già storto nella mente.

Vestiva e pensava come un fantoccio. Se fossimo stati più accorti gli avremmo dovuto chiedere di lasciare per al­cuni anni i suoi studi e di dedicarsi ad uno di noi che è indietro.

22

Qualcuno si è fatto venire i dolori di pancia ascoltando i nostri discorsi. Al prete dicono che la politica non deve farla. E chi non fa politica è un egoista. A noi dicono che non dobbiamo imparare queste cose perché non ne siamo capa­ci. Dietro queste accuse c’è sempre qualcuno che non vuole impegnarsi col Vangelo né con noi.

Molti dei giovani baraccati hanno ascol­tato questo consiglio ed oggi si ritrova­no a parlare solo di sport, di canzoni, di macchine e di ragazze.

23

Abbiamo letto sul giornale che a Castel­franco Veneto un prete fa giocare gli operai e i contadini: così saranno sempre sfruttati.

Il suo dovere sarebbe quello di farli pensare.

Abbiamo anche saputo che il giornale del Vaticano ha parlato bene di un prete che si è ridotto a fare il calciatore. E ha tradito la sua missione.

Il male è che le obiezioni suddette vengono da persone che si piccano di essere educatori.

24

Dicesi educatore colui che crede nella intelligenza dei ragazzi come noi e non viene ad insegnarci stupidaggini come la favola di cappuccetto rosso o la poesia della vispa Teresa o il racconto del gatto che possiede «la serenità di spirito».

25

Un nostro compagno di terza elementare, sul foglietto dal quale abbiamo ricavato insieme a tutti gli altri questa let­tera, ha scritto: «alla scuola del mattino (dello stato) ci fate stare zitti, a quella del pomeriggio (la nostra) invece si deve parlare, leggere, discutere».

26

Noi bisogna essere sempre occupati a fare qualcosa e, tranne qualcuno, nessuno se ne sta scioccamente a giocare. Si studia tutti i giorni dalla mattina alla sera, e tutto l’anno.

La parola «vacanze» è da confessare come parolaccia. Il Ministro della pubblica istruzione si preoccupa di diminuire lo studio dei ragazzi: noi ci preoccupiamo di aumentarlo. I veri maestri non sono coloro che rendono facile lo studio, ma coloro che lo rendono difficile.

27

La nostra scuola è piccola (circa 15 mq.). Il silenzio non è obbligatorio, ma quan­do si studia, tutti quanti cerchiamo di non disturbarci, altrimenti non ci si capisce niente.

28

Il sabato sera si celebra la Messa e per tutto il pomeriggio si legge il Vangelo su un testo greco, latino e italiano.

Poi sette giorni su sette, ci si sforza a viverlo. Amandoci.

E si sa, la Bibbia è dalla parte dei poveri.

29

Agli studenti invece non importa che gli oppressi abbiano coscienza della pro­pria situazione e rispettino la propria fede.

Poverini, credono che noi si abbia biso­gno del loro messaggio.

Un messaggio che regolarmente prende le ferie quando c’è da fare il libero amo­re, c’è da andare sulla neve, in palestra o al mare o quando si avvicinano i loro esami all’università.

Si dicono rivoluzionari, ma sempre bor­ghesi rimangono. E come borghesi vor­rebbero dividere gli operai.

30

Le nostre ragazze sono un po’ pigre. Un po’ la colpa è delle mamme che, mentre lasciano liberi i ragazzi, costringono le ragazze a lavorare in casa o a non venire a scuola.

31

Sono più indifese dei maschi e si riesce ad influenzarle di più.

Alcune di esse parlano ancora di can­tanti e di canzoni.

Ma si vergognano di farlo innanzi a noi. Lo fanno di nascosto come per le zozzerie. Perderanno l’abitudine. Qualche altra è andata via perché ha preferito far l’amore borghese piuttosto che far politica.

Sono ancora vittime del “razzismo” di questa società che siamo costretti a digerire con la violenza. Quella nascosta e raffinata che lei deve conoscere.

Poverine! se non si libereranno dalla pigrizia, saranno destinate a fare le servette dei signori e a farsi sfruttare come commesse in qualche grande magazzino.

32

Sul libro di storia della prima media c’è scritto che gli egiziani nelle scuole per i figli dei signori – come vede il pec­cato non è di ora – ripetevano: «l’orec­chio del ragazzo sta sulla schiena».

Qualcuno che è passato tra noi, ha pen­sato male.

Non ha capito il significato della frase. Se è andata bene per i signori, ora an­drà bene anche a noi.

Ma non abbiamo nessuna idea di ripe­tere le grandi imprese dei signori.

33

I signori ci hanno sempre fregato. Ci hanno detto che la politica è una cosa sporca, ma che solo nelle loro mani di­venta pulita.

È un modo per tenerci oppressi e per colpire il dono dell’intelligenza che Dio ci ha fatto.

È uno dei tanti modi per essere razzisti. Per la nostra scuola tutto ciò che av­viene nel mondo diventa occasione per far politica.

34

Anche lo sport che tanto piace agli industriali.

La sera noi si apre il giornale e si com­menta tutto quello che capita.

35

Così veniamo a sapere che la situazione dell’Acquedotto è la situazione di due miliardi di uomini. Siamo tanti, sindaco! Che accadrà se un giorno la rabbia dei poveri scoppierà?

36

I signori posseggono una grande quantità di armi. Le bombe sono pericolose e possono incendiare l’universo.

Essi dicono di volerci difendere così. Hanno messo sotto i piedi di ciascuno di noi ben cento tonnellate di tritolo.

37

Noi abbiamo ragione da vendere. Cre­diamo nella forza della ragione e non in quella delle armi.

Come vede siamo evangelici.

Leggendo la vita di Gandhi abbiamo conosciuto una parola che è un pro­gramma: «Satiagraha», che significa forza della verità.

38

Gesù prima di Gandhi ci aveva procla­mati beati a causa della nostra sete di giustizia.

Bisogna lottare per uscire da questo in­ferno: uscirne tutti insieme, e per sem­pre uniti a coloro che soffrono, è far politica.

La politica è l’unico mezzo umano per liberarci.

I padroni lo sanno bene, e cercano di addormentarci.

Ci portano vino, televisione e giradischi, macchine ed altri generi di oppio. Noi compriamo e consumiamo.

Serviamo ad aumentare la ricchezza pa­dronale e a distruggere la nostra intel­ligenza.

39

Ora vogliamo dirle perché scriviamo.

Per farle conoscere le nostre idee.

Per dirle che esistiamo.

Lo so bene, dirà lei, ma lo sa dai libri.

Noi da molti anni abitiamo nelle barac­che e molte volte è venuta gente a farci l’elemosina.

Forse per sentirsi la coscienza tranquilla. Questa gente sono i ricchi. Anche le parrocchie fanno il loro gioco: spen­dono milioni per fare capannoni per gio­care a bocce, o per costruire campi sportivi, magari da affittare a giovani fannulloni. Poi come attività evangelica riescono anche ad organizzare i signori per farci beneficenza.

E molti di questi sono falsi: dicono che dal loro palazzo, dietro all’Acquedotto vedono solo la polizia.

Hanno gli occhi e si rifiutano di vedere.

40

Sarebbe ora di smetterla di trattarci co­me se fossimo pasticche tranquillanti.

Non dobbiamo accettare l’elemosina che viene da simili mani.

Alcuni di noi l’accettano e poi arrivano a dire che questi signori sono buoni.

Non sanno che quei doni arrivano per offendere la nostra coscienza.

Vogliono vederci in ginocchio.

41

Fanno a gara. Le parrocchie come le se­zioni dei partiti.

Si sono dati il compito di acchiappar gente e voti.

Avevano quello di essere maestri. An­che nel nostro inferno avevano messo una sezione. Era del P.S.I. (Partito So­cialista Italiano). Mica vi si faceva po­litica. Vi si riunivano i vecchietti della borgata per bere, come si fa in molti circoli delle ACLI.

Poi per attirare i giovani avevano messo anche i biliardini.

Alzavano il pugno mentre nell’altra ma­no tenevano il bicchiere.

42

Sul libro di storia della terza elementare abbiamo letto che nel 3000 a. C. gli egiziani costruivano le loro case con il fango impastato con la paglia.

Oggi, 5000 anni dopo, si va sulla luna, ma noi qui, nel ghetto, come gli egiziani. Abbiamo davanti agli occhi le case dei signori con la loro vita egoista. Non si può andare avanti così.

E lei neppure deve sopportare se non vuol passare per un sindaco neutrale come quelli che ci sono stati prima di lei.

43

Poi ci hanno detto che lei si professa cristiano. Ora diciamo: la sua religione sarà vuota e senza significato se a chi le chiede una casa lei offre parole. Un nostro compagno ha scritto : «Quasi ci tenete all’Acquedotto per divertimento».

44

A ogni «pipì» di gallina danno una Casa. Ciò fa nascere delle invidie tra di noi. È come se un padre desse da mangiare a un figlio e non lo desse agli altri. Non si deve giocare a metterei
l’uno contro l’altro.

Chi divide i poveri è un vigliacco. Approfitta dell’ignoranza.

45

Noi vorremmo darle un’idea:
poiché lei e i padroni direte di volerci bene, noi vi si vuole aiutare, perché questo vostro bene non rimanga sospeso in aria, ma scenda sulla terra come fece Gesù, nel fango dell’Acquedotto Felice.

Venite ad abitare qui da noi.

Unitevi alla nostra lotta. Siamo fatti della stessa carne e delle stesse ossa.
Reumatismi a noi, reumatismi a voi.

Soffriremo insieme, ci vorremo più bene e lotteremo.

Di questo abbiamo bisogno e non di promesse e di pietà.

Sindaco, forse questo è l’unico modo perché la nostra situazione venga risolta.

46

La casa è un diritto e non un regalo come l’ha reso la classe borghese. E accusa per quest’ultima è il fatto che la gente per ottenere un tetto è costretta a ricorrere alle raccomandazioni.

Si è costruita una civiltà di raccomandazioni. Si è calpestato il diritto.

47

Ci diranno che i baraccati sono gente in arrivo a Roma dal Meridione, senza arte né mestiere. Pur sapendo cosa tro­veranno a Roma, si muovono alla ricer­ca di chissà quali ricchezze.

Così credono taluni di incolparci e rimangono incolpati.

I soldi si trovano solo al Nord. E a noi è stato comandato di andarli a guada­gnare là.

Invece si dovevano dividere bene. Pur­troppo chi ci governa ha paura di toc­care i padroni che li posseggono.

48

Ai nostri genitori ogni mese viene tolta una somma per la costruzione delle ca­se ai lavoratori.

Quindi quello che chiediamo è già no­stro. E se non l’abbiamo avuto la colpa è anche della nostra ignoranza che non ci permette di organizzarci.

Ma un discorso più documentato a ri­guardo lo faremo in seguito.

49

Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acque­dotto.

Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno.

Il caldo soffocante l’estate.

I pozzi neri si trovano a pochi metri dal­le nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle ba­racche.

Siamo in un continuo pericolo di malattie.

50

Lo sa, sindaco, che durante quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi.

51

Poi c’è l’amore.

Le coppie mica vengono a farlo innanzi a lei. Vengono da noi.

La sera è pericoloso stare sulla strada. Guardie non se ne vedono. Dinanzi alle banche ce n’è sempre una. Il denaro del padrone si difende. L’one­stà dei poveri no.

52

Noi bisogna uscire da qui, tutti insieme.

Non bisogna rassegnarsi, ma lottare perché il diritto dei poveri sia riconosciuto.

53

Sindaco, noi si dice che tutto il mondo è paese.

C’è chi abita lontano, e noi lo conoscia­mo solo dai giornali, ma gli si vuol be­ne lo stesso. E per questo che noi qui ci interessiamo di tutti, dei negri, degli americani, dei cinesi, dei colombiani. Ed è giusto che tutti sappiano quello che noi facciamo, in modo particolare quelli che abitano nella nostra città.

54

Siamo in attesa di una risposta.

La prima l’aspettiamo da lei, sindaco. Poi da baraccati o dai gruppi di giovani o di sacerdoti che soffrono con loro. Aspettiamo una risposta anche dal Mi­nistro dei Lavori Pubblici e dal Presiden­te della Provincia.

Lavorare da soli può essere buono, ma sarà difficile ottenere ciò che vogliamo. Bisogna lavorare tutti insieme. Noi abbiamo ragione.

55

È per questo che dopo averla mandata a lei, manderemo la lettera ai giornali. Forse ci capiranno solo quelli che vivono come noi. Ma noi si continuerà ugualmente ad aver fiducia nella ragione.

Queste le risposte

A questa nostra lettera, il Sindaco ha risposto dopo tre mesi e otto giorni.

Il Ministro dei Lavori Pubblici non ha risposto.
Il Presidente della Provincia non ha risposto.

Delle persone alle quali la lettera era
stata mandata per conoscenza:

Il Presidente della Repubblica non ha risposto.
Il Presidente del Senato non ha risposto.
Il Presidente della Camera dei Deputati non ha risposto.
Il Capo del Governo non ha risposto.
Il Papa Paolo VI ha mandato un saluto a don Roberto.

Il Cardinale Vicario non ha risposto.

Alcuni giovani tentarono di distribuire la «Lettera» davanti alle due chiese parrocchiali che stanno vicine al barac­camento dell’Acquedotto. Da questi quartieri erano venuti giudizi cattivi sui baraccati. In una inchiesta, l’87% si era dichiarato contro di noi.

Qualcuno diceva: «Fatene un fascio e portateli in Africa, perché quello è il loro posto».

Però i parroci cacciarono via questi giovani.

Dopo qualche mese il parroco di S. Po­licarpo, una di queste due parrocchie, non fece più predicare don Roberto che dovette andarsene.