Un mare di cristallo e fuoco
Questo articolo rappresenta l’adattamento dell’Introduzione del Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017, reso pubblico dal 1° settembre 2017
Chi ne esce meglio dal Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma – 2017 è l’ordine dei diaconi permanenti, più per il fatto di risiedere nel territorio delle Parrocchie – in gran parte inserite in un contesto sociale problematico – dove prestano servizio che per il fatto di non ricoprire ruoli di responsabilità né incarichi precisi. Chi ne esce peggio è il sito del Vicariato di Roma e in generale il servizio comunicativo degli enti della Diocesi.
Leggere un Rapporto del genere probabilmente può aiutare ad interrogarsi ancora più a fondo sul senso della contrazione numerica dei presbiteri della Chiesa di Roma. Probabilmente può aiutare a interpretare in che modo evolve la consapevolezza di essere Chiesa a Roma. Probabilmente, perché si sta assistendo al passaggio (epocale) di una Chiesa cristiana da un modello prevalentemente presbiterale ad un modello più diaconale e laicale.
Crisi vocazionale: le strategie conservative
Gli stratagemmi conservativi della popolazione del clero diocesano di Roma hanno conosciuto diverse stagioni. A fronte della crisi vocazionale abbattutasi sulla Diocesi nel periodo post conciliare si è cercata una soluzione attraverso le incardinazioni. Numeri crescenti di preti sono stati importati per arginare l’emorragia di seminaristi e di defezioni. Concretamente la Diocesi non ha mai sofferto la mancanza di clero. A tamponare le pressanti esigenze ci ha pensato in parte anche il clero religioso residente per varie ragioni nella Capitale, come pure il clero di altre Diocesi al servizio della Santa Sede.
Dagli inizi degli anni ’90 sul panorama diocesano si affaccia un nuovo fenomeno, un numero crescente di ordinazioni di chierici di nazionalità non italiana. In taluni casi si è rivelato un espediente temporaneo per soccorrere soprattutto Parrocchie a corto di clero. Fenomeno non privo di ambiguità, come del resto per vari aspetti pure quello delle incardinazioni. Cosa spinge un giovane in formazione a scegliere di mettere tra la propria terra di origine, la propria famiglia, la Chiesa dove è stato battezzato, comunicato, cresimato e quella dove diventare prete ed esercitare il ministero sacerdotale un oceano intero? Non si vuole minimamente adombrare il sospetto di cattive intenzioni; si vuole però comprendere se alla base le motivazioni fossero abbastanza solide. Probabilmente non in tutti i casi è stato così.
Ma queste strategie si sono rivelate davvero efficaci ed efficienti? Sotto il profilo del mero risultato immediato si direbbe che erano l’unica alternativa a drammatici e imprevedibili esiti di penuria di preti. Considerando tutto con il senno del poi hanno solo rimandato il problema di qualche decennio. Le comunità cristiane si sono trovate belli e scodellati i preti che andavano a dire messa, spupazzavano i loro figli, preparavano i sacramenti, gestivano Parrocchie ed oratori. Non hanno mai trovato la porta di una Parrocchia chiusa e forse anche per questo non hanno mai fatto i conti della serva per stabilire da dove venissero tutti quei preti, dal momento che dalla Parrocchia non uscivano vocazioni.
Roma, una città cristiana che non dà i figli migliori alla Chiesa
Lo stesso Santo Papa Paolo VI aveva ben chiaro il significato di una Chiesa costituita da una “popolazione nuova e ancora instabile, senza radici nella storia, nella tradizione del luogo” frutto del nomadismo italiano postbellico e della forte immigrazione degli anni ’50 e ’60. Ad essa si appellava Paolo VI perché desse “i figli migliori, i suoi rappresentanti più preziosi alla Chiesa di Roma”; ad essi si rivolgeva perché fossero “portatori di una virtù sovrumana che si chiama la fedeltà”, alla vocazione e alla Diocesi stessa (fonte). Progetto e auspicio che il Papa non vide mai compiutamente realizzati, nella stagnazione vocazionale in cui si trovò la sua Diocesi.
Le strategie adottate in passato per risolvere tale stato emergenziale fanno sorgere molte domande proprio su come la comunità dei credenti di Roma sia stata coinvolta – ieri come oggi – in modo attivo e partecipativo nella cooptazione, selezione e formazione dei propri pastori. Contribuisce a rafforzare la domanda l’elevato numero di escardinazioni e di dimissioni dallo stato clericale, come anche di chierici che non risiedono più in Diocesi o non vi esercitano nessuna attività: dove erano le comunità cristiane quando questi preti arrivavano? E dove erano quando andavano via? Il primo soggetto da interpellare sul clero diocesano di Roma è proprio lei, la comunità cristiana.
Il prete che snocciola rosari e indossa sandali: criteri e mode
Le previsioni sui numeri futuri non sono rassicuranti, per gli amanti delle grandi quantità. Ma puntare sulla quantità non è più verosimile oramai, tanto che persino Papa Francesco nel 2016 ai partecipanti al corso di formazione per i nuovi Vescovi (ebbene sì, c’è un corso per ogni cosa…) ha detto esplicitamente: “Non lasciatevi tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cercate piuttosto la qualità del discepolato. Né numeri né quantità: soltanto qualità” (fonte). Certo, più facile soppesare quantità che darsi criteri qualitativi per determinare se uno è buono o cattivo prete.
Si trova il prete che trascorre ore davanti al Tabernacolo a snocciolare rosari e porta al collo una croce francescana di legno e se ne deduce una formidabile santità. Se il criterio è snocciolare rosari e portare al collo una croce francescana di legno. Si trova il prete che indossa sandali e va in giro con un’automobile vecchia e se ne deduce che ha abbracciato povertà e umiltà. Se il criterio è indossare sandali e andare in giro con un’automobile vecchia. Si trova il prete che frequenta i social e regge botta ad ogni polemica sulla fede e si può dire che non ha capito nulla di spiritualità sacerdotale. Se il criterio è snocciolare rosari, portare al collo una croce francescana di legno, indossare sandali e andare in giro con un’automobile vecchia. Tutto è abbastanza opinabile in questo campo e rispecchia in parte le mode del tempo, alle quali comunque non si può rinunciare completamente.
Chi è il sacerdote diocesano secolare?
Un criterio indiscutibile invece si trova nella natura stessa del prete di cui si parla: prete diocesano, un tempo si sarebbe detto secolare. Un prete che ha deciso di votare la sua vita ad una Chiesa locale, particolare, una Diocesi – in questo caso Roma – e di vivere nel saeculum, nel mondo e nel tempo presenti. Quindi, in negativo, non un prete “religioso”, che segua una “regola”, non un prete che viva ritirato in convento o in monastero. La confusione, introdotta da una spiritualità sacerdotale che ha uniformato la preziosa varietà dei carismi del popolo di Dio, c’è, permane.
A dispetto dei tentativi di recuperarla sotto forma di “carità pastorale” (Pastores dabo vobis, 23; fonte), senza però fornire a quest’ultima una tipicizzazione la confusione è destinata ad assumere forme nuove: nella formazione seminaristica è stato detto all’aspirante sacerdote diocesano-secolare che entrando al servizio di una Chiesa particolare avrebbe dovuto pagare le bollette della Parrocchia? Senza nessuna differenza rispetto a quanto fa un padre di famiglia… All’aspirante sacerdote diocesano-secolare è stato detto che scegliere di non sposarsi e di non vivere in una comunità religiosa comporta che presto o tardi si resta soli? Senza nessuna differenza da un uomo separato, divorziato o vedovo… All’aspirante sacerdote diocesano-secolare è stato detto che la sua vita di “regolare” non avrà nulla, né come orari né come spazi né come relazioni interpersonali? Perché la sua spiritualità è diversa da quella di un francescano o di un carmelitano o di un missionario della Consolata che gira il mondo…
Dal seminario, meno preti da altare e più preti vicini alla gente
Si lamenta che molti aspiranti al sacramento dell’ordine fatichino “a stabilire relazioni con le persone” e si richiedono meno “preti da altare” e più “preti tra le persone” (fonte); si sente l’esigenza di un prete che sia “vicino alla gente” convinti che sia molto meglio puntare sulla “qualità” di un “presbiterio non clericale” (fonte): in altre parole si sta – forse – finalmente ritrovando il fil rouge di un’autentica spiritualità del sacerdote secolare. Che poi ciascun prete saprà declinare nella propria sensibilità e nelle personali scelte di vita, ma senza mai più ricadere in forme di sacerdozio criptomonacali o pseudocongregazioniste o peggio ancora neoangelizzate fino al rigore manicheo e rifiutando improbabili nostalgie veteroseminaristiche. Il secondo soggetto da interpellare sul clero diocesano di Roma, quindi, sono proprio loro, i formatori, probabilmente i superiori del seminario, ma anche gli studiosi e i pastori che devono dare l’imprinting che rimarrà per tutto il ministero del presbitero.
Perché i preti diocesani-secolari sono poco interessanti?
La Chiesa di Roma, appena entrata in una nuova stagione rispetto al suo clero diocesano, sembra essere spinta nel III millennio cristiano a ricercare una maggiore trasparenza, l’abbandono del formalismo attraverso l’adesione alla realtà storica, la revisione radicale dei modelli formativi dei chierici, sia come formazione iniziale sia come formazione permanente.
Preti trasparenti
In relazione alla trasparenza bisognerebbe chiedersi perché, nonostante la capillare presenza di clero diocesano in tutta la Città, nonostante la copertura di centinaia di attività, nonostante la martellante richiesta di “spiritualità”, la figura, l’immagine del prete diocesano non sia appetibile. Tutta colpa dei cattivi? O la creatura è incompresa, poverina? O la verità è più forte: che realmente non ci sia nulla di appetibile nelle forme di preti diocesani-secolari storicamente incontrate? Qui trasparenza allora assume diversi significati. Vale per la persona in se stessa, il prete diocesano-secolare, trasparente, senza secondi fini di carriere o arricchimenti, senza intenzioni subdole e meschine, senza affettazioni, trasparente persino nelle passioni umane, nelle rabbie e nelle risate, “come bimbo svezzato in braccio a sua madre”. Tutto sommato si potrebbe concludere: vero uomo. E vale per il comportamento ecclesiale in generale: dalla trasparenza economica (sancita per Roma dal Secondo Sinodo e confermata per la Chiesa italiana dalla 69a Assemblea Generale CEI, fonte) alla trasparenza dei problemi della Diocesi, dalla trasparenza su incarichi e attività alla trasparenza delle informazioni. La Chiesa deve diventare quel mare trasparente di cristallo misto a fuoco sul quale stavano ritti i vincitori dell’Apocalisse cantando il cantico di Mosè (15,2-3).
Preti non formalisti, diaconi nelle parrocchie diaconali
Più difficile debellare il formalismo, perché richiede una buona dose di conversione alla verità attraverso l’adesione alla realtà storica, adaequatio rei et intellectus. Per esempio, la realtà è che i diaconi permanenti del clero romano sono poco valorizzati, ai limiti del fraintendimento della loro identità, se – come è accaduto almeno in un caso – uno ha potuto fare da “rappresentante dei laici” di una Prefettura ecclesiastica nel Consiglio Pastorale Diocesano. La verità, si voglia o no, è che i diaconi permanenti non sono laici, fanno parte a tutti gli effetti del clero romano e la Chiesa di Roma deve avvalersi del loro servizio, eventualmente anche a tempo pieno. Senza escludere quindi la possibilità di giungere a creare “Parrocchie diaconali”, diaconie di Prefettura con compiti pastorali di assistenza dei poveri e dei malati.
I Padri Cardinali non rappresentano il clero di Roma, i Prefetti sì
L’adesione alla realtà storica impone che si prenda atto di cambiamenti irreversibili che modificano radicalmente il significato delle cose. Si prenda per esempio il caso dei Padri Cardinali. Le loro principali attività sono l’aiuto al Papa nel governo della Chiesa universale e la funzione di grandi elettori per la successione del Vescovo di Roma, in rappresentanza del clero romano. Ma nessuno dei Padri Cardinali attualmente proviene dal clero romano né è stato scelto dal clero romano, tutti sono stati nominati titolari di una chiesa di Roma e per tale mera finzione giuridica rappresenterebbero il clero romano. La verità da accettare qui è che ormai da decenni i Padri Cardinali non rappresentano più il clero di Roma se non fittiziamente. Semplice.
Oggi a rappresentare il clero di Roma sono, meglio dei Padri Cardinali, i Prefetti, quella quarantina di sacerdoti eletti dai loro confratelli per consigliare il Vicario Generale sugli affari pastorali più importanti della Diocesi di Roma. La Diocesi del Vescovo di Roma, del Papa. Presto o tardi potrebbero essere loro ad affiancare i Padri Cardinali, che resterebbero elettori in rappresentanza del clero di tutto il mondo presso Roma, nell’elezione del Vescovo di Roma, del loro Vescovo: i Prefetti come i veri rappresentanti del clero romano. Adaequatio rei et intellectus.
Basta ecclesiastichese, tra 30 anni saranno digital priest…
Aderire alla realtà storica significa anche andare contro la propria sensibilità maturata in un contesto storico diverso, a volte. Un clero nato in un altro millennio, formato con metodi più o meno ottocenteschi (basti pensare semplicemente all’ecclesiastichese che riesuma dal medioevo funzioni come “Primicerio” o “Camerlengo” o “Priore dell’Ordine Equestre”), congenitamente sospettoso verso le novità mondane deve confrontarsi con la velocità delle trasformazioni sociali imposte dalla tecnologia. Non si può dimenticare che la generazione di preti che tra 25-30 anni entrerà a far parte di un clero romano nella china discendente sarà quella che a scuola ha studiato sugli ebook con i tablet e ha navigato su internet dove con le app è riuscita a conoscere la Bibbia e a pregare. Rifiutare oggi di consentire, per esempio, l’uso dei lezionari, dei rituali o del messale digitalizzati è un po’ come voler arginare il mare.
… e Cappellani del web
Mentre la verità è che grazie alla tecnologia internet il web è diventato un ambiente dove l’umanità, in un modo o nell’altro, si incontra, comunica, si conosce, scambia idee, costruisce tendenze e mentalità, crea occasioni. Un ambiente che richiede una pastorale specifica e di certo non sarebbe bislacco se una Diocesi decidesse di creare un nuovo incarico apposito, il Cappellano del web. Adaequatio rei et intellectus.
Il prodotto finale: imparare a fare il prete a Roma andando fuori Roma
La revisione dei modelli formativi dei chierici segue la sete di trasparenza e di verità della Chiesa di Roma nel III millennio cristiano. Se la Chiesa di Roma ha operato una svolta missionaria nella prospettiva della nuova evangelizzazione, non sarebbe importante per esempio che tutti i candidati all’ordine sacro della Diocesi di Roma trascorressero un biennio in missione? Magari proseguendo gli studi in un seminario di qualche sperduta regione? Si tratta di esempi, beninteso, perché il modello formativo è un mezzo al fine, presuppone che si abbia chiaro quale prodotto finale si voglia raggiungere, che tipo di prete si desidera realizzare.
Chiesa come ospedale da campo
In realtà appare molto evidente che la contrazione numerica dei preti nel medio periodo delinea anche a Roma un modello di prete già in atto in quei luoghi dove la penuria di clero si lamenta da più tempo. È il modello di un prete mobile, itinerante, trasversale negli ambienti piuttosto che stabile in un edificio, animatore di comunità piuttosto che factotum ecclesiale. In questo senso, fintanto che i numeri ancora lo permettono, sarebbe significativo poter contare su preti che pongano a servizio di più Parrocchie le loro competenze. In tal modo si inizia ad educare ed abituare le comunità ad un prete – per esempio – non più viceparroco di una sola Parrocchia ma responsabile dei giovani di una intera Prefettura, soprattutto prendendosi cura dei più difficili e di quelli che devono trovare nella Chiesa un “ospedale da campo”. Al tempo stesso un prete in grado di costruire un tessuto di responsabilità che tenga conto dell’apporto di laici e di religiose.
Spazio alla sperimentazione pastorale
Non si tratta di semplici revisioni organizzative, ma del cambiamento del modello di comunità, nella quale la figura del presbitero, prolungamento della presenza del Vescovo, agisce più come fattore di comunione fraterna e di nutrimento sacramentale che come manager clericale. Non essendovi precedenti del genere nella Chiesa di Roma ma avendo ancora tempo per preparare il futuro, sarebbe indispensabile iniziare una sperimentazione pastorale per acquisire esperienza, creare mentalità e selezionare i migliori obiettivi possibili.