Una tipica risposta da “maschio”
Siamo persone libere prima di essere femmine e maschi
di Nicla Vassallo
Sebbene non ancora, il futuro prossimo dovrebbe concederci maschi incinti. Così, non toccherà più solo a una qualunque femmina umana incinta sentirsi spesso chiedere “ne conosci già il sesso?”. Non il suo, bensì quello del nascituro, of course. Curiosità triviale, morbosa. Di civiltà, o meglio di inciviltà (il virilismo parte dalla primitività e ci raggiunge, con ogni colore di ogni pelle, con ogni predilezione politica e religiosa – pur sempre machista, perché non dirlo?), inciviltà in cui non si è tuttora oltrepassato lo stereotipo del sesso per il sesso – con un’inequivocabile predilezione per il sesso maschile.
E tu, invece, di che sesso sei? Femmina o maschio? Domanda irritante, e al contempo banale, se non fosse altro perché, proprio nel sollevarla, si nutre il pregiudizio che necessiti di una risposta “essenziale”, con l’allucinazione di comprendere davvero chi sei in virtù della tua presunta identità sessuale, giammai personale, nonché nella convinzione che si diano due specifici sessi.
Per di più, la predominante inciviltà gradisce, o piuttosto impone, che si rientri negli stereotipi, così una “vera femmina” non può essere aggressiva, affermata, anaffettiva, anziana, avventurosa, combattente, competitiva, indipendente, insensibile, insubordinata, intelligente, irriverente, sgraziata, single. Né, meno che mai, lesbica: le femmine, tutte, sono state create in funzione del maschio etero, o no? Spesso, purtroppo, di un maschio qualunque.
«Infatti – scriveva San Paolo ai Corinzi – non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo».
I più decretano, purtroppo, le nostre appartenenze sessuali in base alle apparenze genitali, ai modi di “far sesso”, comportarci, abbigliarci, interloquire, e via dicendo. In altre parole, tutti noi dovremmo ridurci a incarnare (non vi è qualcosa di osceno in ciò?) i ruoli del maschio o della femmina (maschio se sei maschio, femmina se sei femmina, come se non sussistesse via d’uscita, o fuga) nonché ad agire in tal senso, perché le nostre identità, di fatto, finiscono col declinarsi al femminile o al maschile, pena l’esilio dalla cosiddetta (maledetta?) normalità.
Già, vero, la dicotomia sessuale (non confondiamola con l’identità: per carità!) fa comodo a parecchi appartenenti al sesso “dominante” e, diciamolo, al sesso “dominato”: non si capirebbe altrimenti il successo planetario di quella trilogia di libracci, mal scritti per sfumature e colori – geniale o diabolica E.L. James?
Comodo perché invece di cercare e indagare con fatica il proprio sé, si aderisce a modelli atavici, modelli belli e pronti, la cui matrice scientifica rimane, oggi come oggi, dubbia, ma non quella storica, sociologica, religiosa (perlomeno nelle pratiche delle tre grandi, comuni, religioni monoteiste): il maschio deve essere mascolino, razionale, attivo, culturale, oggettivo, la femmina deve essere femminea, irrazionale, passiva, naturale, soggettiva.
Si finisce così col confondere la cosiddetta appartenenza sessuale a quella di genere, all’essere donne e uomini, appartenenza quest’ultima socialmente costruita e, di conseguenza, destrutturabile, evitabile, sempre che se ne abbia la volontà, volontà che manca però a troppi/e italiani/e, altrimenti il nostro Paese non verrebbe classificato dal Global Gender Gap 2012 del World Economic Forum all’ottantesimo posto, preceduto, solo per menzionare alcuni altri paesi, da Cipro, Perù, Botswana, Brunei, Honduras, Repubblica Ceca, Kenya, Repubblica Slovacca e Cina.
Paese, il nostro, per tanti versi falso, in cui a contare nella quotidianità e nell’immaginario perdura proprio la filosofia della differenza sessuale, oltre che l’ideologia “razziale” (rimane tuttora facile da noi approfittare, pure a lungo, di una “nera” o di un “nero” e, forse, viceversa, o di parecchi altri non “occidentali”), a dispetto dell’individualità di ogni donna e di ogni uomo, a dispetto, a dire il vero, di ogni essere umano nella sua unicità. Contrariamente a quella filosofia, tu hai invece una storia personale, appartieni a una etnia e a una classe socio-economica, hai una preferenza sessuale, possiedi una certa cultura, hai scelto (o no) una qualche religione, hai un’età, ed esperisci tutto ciò in un tuo modo peculiare.
Paese incivile, oltre che falso, il nostro, in cui il “valore” attribuito al sesso si traduce spesso in dati allarmanti che riguardano il femminicidio, la prostituzione, il turismo sessuale, quest’ultimo praticato pure in loco: perché recarsi all’estero se la tua “razza” ti concede privilegi su chi non ha la pelle del tuo medesimo colore? Così, sessismo e razzismo procedono di pari passo. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, né su quello orientale.
Di nuovo, chi sei tu? Una femmina, un maschio? Riflettiamoci. Ammessa, ma non concessa, l’appartenenza sessuale, perché mai esaltarla, consacrarla? Abbiamo forse dimenticato le buone maniere? Ricordiamole. Luigi Pirandello scrive: «Ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè come prima, all’occorrenza: “Io mi chiamo Mattia Pascal”».
A fargli eco c’è Virginia Woolf che domanda: «Se ci sono, mettiamo, settantasei ritmi diversi che battono all’unisono nello spirito umano, quante diverse persone – Dio ci aiuti – non albergano in un momento o nell’altro nello spirito umano?».
Qui non si menzionano femmine, né maschi. E, proprio quando non partiamo dal considerarci essenzialmente femmine o maschi, diventa prioritaria la ricerca del nostro io, pur nelle sue contraddizioni e molteplicità, aspirando a una qualche continuità attraverso lo spazio-tempo, nel rispetto della nostra peculiare dignità.
Dunque, innanzitutto, identità personale, non sessuale. In cosa consiste? In una nostra continuità che si concretizza non solo nella memoria, ma pure nella conservazione di alcune altre caratteristiche mentali, quali le credenze, il carattere, i desideri. Nel momento in cui perdiamo questa continuità non siamo più noi stessi? Continuiamo a essere noi stessi se l’identità personale consiste, invece, in una continuità fisica, soprattutto cerebrale? Ma noi stessi riusciamo a racchiuderci in un mero cervello privo di psiche e mente? Forse no, cosicché la nostra identità personale finisce col coincidere con la nostra continuità psico-fisica.
Sembra tutto abbastanza semplice, ma così non è. Basti menzionare Sigmund Freud e la sua idea di un io sì sede dell’angoscia, luogo minacciato dal mondo esterno, dalla libido dell’Es, dai rigidi dettami del Super-io, ma anche collante dei vari processi psichici. O menzionare Ronald Laing che insiste su un io diviso, privo di centralità, cui occorre sostituirgli la presenza: il soggetto individuale in relazione con l’oggetto-mondo si converte in un essere-nel-mondo. Già, siamo esseri nel mondo, mondo in cui veniamo però categorizzati innanzitutto in base al nostro sesso e genere di appartenenza.
Perché mai, visto che rimaniamo esseri la cui complessità è ben maggiore di quel che comunemente si creda, esseri che, se non stereotipati, tenderebbero a comprendere il proprio io, quell’io che ci differenzia da ogni altro io, quell’io per cui ognuno di noi è se stesso?