Zibaldone della settimana – 03

Esichismo ed esichisti

Questo non lo chiamo “pacifismo“, ma “esichismo” (da ἡσυχία, esichia gr. quiete). Il termine “quietismo” è occupato, quindi inutilizzabile. Il termine “esicasmo” ha significato proprio in ambito spirituale.

Esichismo” è l’atteggiamento dell'”esichista“, cioè di colui che per quieto vivere proprio o del suo gruppo sociale di riferimento è disposto ad accettare che altri soggetti, singolari o collettivi, subiscano soprusi e ingiustizie pur di non correre rischi analoghi.

Tipico esempio di esichista è il tizio che passando in strada e vedendo una persona malmenare un’altra, cambia direzione per non “immischiarsi” negli affari non propri e per “difendere” la sua incolumità. È il “me ne frego” e il “tiro dritto” di rovinosa memoria.

Tipico esempio di pacifista è il tizio che passa in strada, vede una persona malmenare un’altra e cerca di attirare l’attenzione di altri passanti, si avvicina, chiede all’aggressore di interrompere la sua azione, offre aiuto alla vittima, chiama le forze dell’ordine. È l'”i care” di Milani.

L’azione pacifista è complessa e strategica. Il pacifista non chiede chi ha torto e chi ragione, ma vede solo chi è aggredito dal più forte e chi è aggressore del più debole. Il pacifista non è giudice. Nemmeno vuol sapere le ragioni del conflitto. Si frappone per interromperlo.

L’azione esichista è semplice e tattica. L’esichista pensa a sé e ai suoi interessi. Trova giustificazioni per non intervenire e le ammanta di significati morali e superiori. Sospetta che l’aggredito se la sia cercata o meritata. Sconsiglia gli altri dal prendere posizione. Fugge dalle proprie responsabilità, rimandando ad altri l’onere dell’impegno.

Sostenni a suo tempo che la responsabilità delle scelte politiche di una Nazione implica una certa solidarietà tra Governo e Popolo. Oggi sostengo che la responsabilità comune della pace non esime nessuno dal frapporsi tra aggredito e aggressore per mettere quest’ultimo nelle condizioni di non nuocere.

Ignorare gli appelli di un soggetto aggredito e lasciarsi intimorire nel prenderne la difesa è esichismo, non pacifismo. Cercare una condizione senza conflitti ma a spese della giustizia e della libertà è esichismo, non pacifismo.

Il quieto vivere non è la pace.

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La cultura della monnezza

A Roma si parla di termovalorizzatore. Molti si sono accalorati sull’argomento. Del resto la temperatura del dibattito politico è da un po’ che ha superato i limiti di guardia.

Servirà il termovalorizzatore a Roma?

Se dovessi rispondere avendo lo sguardo solo sulla parte finale del processo della monnezza (eliminazione o trasformazione della monnezza) e non considerassi la fase iniziale (produzione della monnezza) e la fase intermedia (raccolta della monnezza) dovrei dire che no, non servirà a molto. Al massimo a recuperare qualche euro, con buone probabilità che venga dilapidato nei mille rivoli di una cattiva gestione.

Non servirà perché non è che fino ad oggi Roma non ha avuto modo di eliminare o trasformare la monnezza che ha prodotto. O accatastata in discarica, o inviata ai centri per il riciclo, o venduta a caro prezzo ad altre città, in un modo o in un altro la monnezza ha trovato una destinazione finale.

Ciò che ancora oggi (e temo anche in futuro) rappresenta l’anello debole del processo sono la produzione della monnezza e la raccolta della monnezza. Cioè le due fasi che richiedono un intervento diretto del cittadino. Il quale dovrebbe differenziare bene, non inquinare la differenziata, non sporcare le strade, smaltire correttamente i rifiuti speciali; e poi – in qualità di dipendente dell’Azienda a ciò deputata – dovrebbe raccogliere con attenzione, pulire con cura le strade, avere rispetto dei mezzi e degli strumenti della raccolta.

Il termovalorizzatore risolverà solo una parte del problema. Ma se non ci sarà una corrispondente crescita di coscienza civica, la monnezza romana continuerà a restare parte del costume dell’Urbe, un pezzo di panorama, di cultura che persino i turisti sarebbero sorpresi di non poter più ammirare.

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Oh quante belle Conferenze, Madama Dorè

Per i vescovi italiani esiste la Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Propongo che si costituisca anche una Conferenza Presbiterale Italiana (CPI) per i presbiteri italiani.

E una Conferenza Diaconale Italiana (CDI) per i diaconi italiani.

E una Conferenza Religiosa Italiana (CRI) per le religiose e i religiosi italiani.

E una Conferenza Laicale Italiana (CLI) per le laiche e i laici italiani.

Non sarebbe male, come inizio di un cammino sinodale…