Zibaldone della settimana – 04
Amare, voce del verbo fare il bene
Mi capita spesso di ripetere le stesse cose. Diranno che è aterosclerosi. Smentisco categor… ok, non so con esattezza. Però questa cosa la ripeto spesso e volentieri apposta.
Cosa significa amare?
Per noi, eredi del romanticismo e dell’emozionismo, amare è provare quei sentimenti caldi e rassicuranti che ci fanno sentire appagati perché ci perdiamo nell’estasi dei batticuori e del calore umano. Ma non è sempre stato così, non è sempre stato questo l’amore. Penso, per esempio, a Gesù che comandava ai suoi “amate i vostri nemici“.
Come si fa ad “amare” un nemico, nel senso di cui sopra? Qualcuno che magari ti sta uccidendo o sta facendo del male a qualche persona cara? Un genitore che si approfitta di un figlio? Ci sono persone oggettivamente inamabili, nel senso di cui sopra, per le quali è impossibile provare sentimenti caldi e rassicuranti e perdersi nell’estasi di batticuori e di calore umano.
Del resto sembra improponibile che il Signore avesse voluto comandare di “provare sentimenti caldi e rassicuranti” nel senso di cui sopra. Di sentimenti, di emozioni non possiamo disporre a comando (a parte qualche droga…).
Se poi ammettessimo che anche Dio “ama” (in modo divino, naturalmente) nel senso di cui sopra, ci potremmo al più rallegrare che Egli provi sentimenti e emozioni tanto intense, per quanto a lui non sia necessario provarle e a noi non cambi molto che lui le provi.
Allora? Cosa significa amare?
Ai tempi di Gesù il senso non poteva essere quello post-romantico o post-emozionista dei giorni nostri. Mancavano persino i bigliettini dei Baci Perugina. Lo stesso Gesù nei suoi discorsi insiste invece nel formare un’endiadi tra “amare” e “fare il bene” (“amate i vostri nemici” Lc 6,27.35; “fate del bene a coloro che vi odiano” Lc 6,27; “fate del bene” Lc 6,35) che ci rivela il significato più vicino al suo modo di vedere.
Amare è fare il bene (vale anche il contrario, con ulteriori sfumature: fare il bene è amare).
Diventa così più comprensibile il suo comando di amare i nemici. Perché si possono provare sentimenti molto negativi verso una persona, si possono ammettere le antipatie a pelle delle quali nessuno di noi deve sentirsi in colpa, e al tempo stesso si può fare il bene di quella persona, bene vero, nella certezza che è così che si sta amando.
Però non basta. Non basta fare il bene. Bisogna farlo bene.
Mal incolse a quel tizio che nella foga di salutare una persona cara e di abbracciarla ha finito per pestarle i piedi, sbilanciarla e farla cadere in terra. Non si può dire che non volesse farle un bene, questo no, ma che non ha fatto bene il bene che voleva fare.
Allo stesso modo è necessario che fare il bene (cioè amare) non sia questione a tempo determinato. Il bene bisogna farlo sempre.
Non è sensato che qualcuno ci giuri il suo amore… per i prossimi quindici minuti e dopo sarà indifferenza o odio. Il bene non è un pacchetto che si può prendere o lasciare. Il bene è un abito, habitus avrebbero detto i latini, un’abitudine buona, qualcosa che entra a far parte in modo costitutivo dell’essere di una persona. Che così si definisce buona. Persona buona.
Comunque sarebbe una noia infernale la vita di una persona buona senza fantasia, senza inventiva, senza creatività. Anzi, ammettiamolo, una persona buonasorridentecarinasimpaticadisponibileaccudente dopo un po’ ci secca pure. Perché le cose ripetitive ci stancano. Infatti il bene va fatto sempre meglio.
Il bene è un crescendo, l’amore è un crescendo. È svegliarsi la mattina e progettare il bene dell’altra persona, stupirla, non farla mai sentire una minestra riscaldata. La fantasia del bene, la creatività dell’amore non solo spiazzano il prossimo, ma rendono noi meno monotoni, più vivi nel ricercare sempre cose nuove nella sfida del futuro, più costruttivi.
Quindi: amare è fare il bene, farlo bene, farlo sempre, farlo sempre meglio.
Altro che cuoricini e cicci cicci puffettino puffettina.
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Tu sei Pietro e su questa pietra…
Prendo spunto da un thread e da un articolo di @MassimoFaggioli interessanti.
a short thread on my latest in @LaCroixInt https://t.co/1eRt2nF3UV
Francis has dome something that we could call “Pontifexit”: the papacy is leaving behind its identification with the West. It’s something that commenced with John XXIII.— Massimo Faggioli (@MassimoFaggioli) May 11, 2022
Il mio modesto punto di vista è che a piccoli passi la storia si stia incaricando di produrre quella revisione dell’esercizio del ministero petrino che la Chiesa sta affrontando con timidezza e senza troppa convinzione.
Dal papato imperiale del primo millennio a quello monarchico del secondo millennio si coglie non solo la perdita del potere temporale ma anche la radicale trasformazione del sottostante modello di Chiesa.
Sopravvivono elementi dei modelli precedenti. Per esempio Curia, Prefetti, Motu Proprio, Nunzi Apostolici, Mandato Apostolico…
Snocciolare una dietro l’altra le strutture che fissano il papato al ruolo che si è dato permette di ripercorrere 2000 anni di storia, di prolungare nel tempo memoria e riti del mondo orientale e romano.
I sostenitori del tradizionalismo diranno che QUELLA era vera Chiesa e che il Concilio Vaticano II è stato un tradimento. Banale nostalgia del passato, del potere perduto, delle solenni cerimonie o sincera preoccupazione del destino della Chiesa cattolica romana papale?
In realtà la debolezza intrinseca del papato residuo dei modelli dei millenni precedenti è luminosamente significata dall’era dei Concordati, inaugurata a Roma coi Patti Lateranensi. Il papato si accredita da interlocutore nei trattati tra Stati e comunità cristiane nazionali.
È il Papa in quanto Papa che sottoscrive l’accordo, non più un Regno o uno Stato Pontificio, o la Città del Vaticano. Per permettere ciò il Papa riconosce legittimo che il suo ruolo sia definito internazionalmente al pari di quello di un qualsiasi altro soggetto politico.
Lungi dall’essere una “promozione“, il fatto che il Papa in quanto Papa si imponga come soggetto politico del mondo contemporaneo è una svolta del papato che ne indebolisce il suo ruolo profetico religioso.
“Quante sono le divisioni del Papa?” si poteva chiedere Stalin. Ciò che un tempo dava forza politica al papato imperiale e monarchico era il suo potere temporale.
E oggi? Senza potere temporale? Sono forse i numeri dell’Annuario Statistico?
“Quanti sono i fedeli del Papa?” si potrebbero chiedere i politici contemporanei, non senza un pizzico di ironia considerando il vistoso ubiquitario calo numerico.
Il ruolo della Chiesa, però, non è mai stato quello di prolungare nel tempo i modelli del suo passato o di dare forza al papato; la sua missione è quella di prolungare nel tempo l’opera salvifica di Gesù.
Se un certo modello di papato risponde a questa missione, bene. Se un certo modello di papato non risponde a questa missione, si cambia.
La mia tesi è che l’attuale modello di esercizio del ministero petrino non risponda in modo precipuo alla missione della Chiesa, anzi potrebbe esserle persino di ostacolo, come dimostrato in vari casi storici.
Occorre ricordare che il papato del vescovo di Roma non si decise a tavolino, né nelle sue forme né nei suoi contenuti, ma è il risultato di un lavorio secolare di risposta alle esigenze storiche da parte della Chiesa.
In tale lavorio si riconosce l’intervento provvidenziale dello Spirito Santo. Nondimeno nella formazione del papato del vescovo di Roma si ricoscono le miserie umane, intese come limiti personali e sociali e come veri e propri peccati.
Perciò un credente onesto non deve rifiutare la revisione dell’esercizio del ministero petrino. È conversione. Conversione dalle miserie umane alla missione della Chiesa.
A mio avviso da condurre lungo quattro direttrici.
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- Esercizio collegiale ecumenico del ministero petrino
Non più un solo uomo al comando; i leader cristiani possono parlare e agire concordemente su temi comuni. In questo senso vale anche il principio del decentramento amministrativo. Non è detto, infatti, che il governo della Chiesa universale debba essere centralizzato nei dicasteri vaticani, potendosi affidare singole aree di intervento ai Sinodi o alle Conferenze Episcopali. - Responsabilizzazione delle comunità cristiane locali
La vera autorità morale si riserva e si esercita in modo appropriato quando si sono distribuite e si rispettano le responsabilità altrui. Meno vescovi e meno vescovi chierichetti, più maturità delle comunità locali. - Ruolo dei laici nelle questioni politiche
Il ministero petrino non oblitera il ministero degli altri fedeli, anzi lo valorizza. La comunità cristiana deve essere rappresentata e tutelata in tutte le sedi, ma non necessariamente ovunque dallo stesso soggetto multiruolo. - Rapporto con i beni terreni
Il timore di esagerazioni pauperiste non può paralizzare la Chiesa nel distacco dai beni terreni. Un papato economicamente costoso ha un costo anche in termini di coerenza evangelica e di autorevolezza.
- Esercizio collegiale ecumenico del ministero petrino
Tutto lavoro per il terzo millennio cristiano.